Il laboratorio di critica teatrale chiude oggi, con le interviste ai due direttori Stefano Ricci e Gianni Forte. Anche noi, in questi giorni, siamo stati rossi: per l’emozione, quando abbiamo applaudito; per il fiatone, quando sui ponti abbiamo rincorso i nostri ritardi; per un misto giovanile di vergogna e orgoglio, quando i maestri ci hanno ripreso; per il calore con cui ci hanno incoraggiati e con cui ci siamo sentiti compresi – mai giudicati. E per la foga con cui insieme, tra gli spritz del dopo-festival, abbiamo sovrapposto le nostre impressioni, senza che nessuna mai prevalesse. Come la penna con cui ci siamo corretti e presi in giro a vicenda, tra anafore e metonimie, o come le ciliegie del mercato di Santa Marta: l’una tira l’altra, come noi che continueremo a rincorrerci a teatro.
Virginia Magnaghi
Quali sono gli obiettivi della Biennale Teatro 2022, anche in relazione all’esperienza e agli esiti della scorsa edizione?
L’obiettivo era e rimane quello di una possibile condivisione. In questo momento storico – in cui si tende invece a evitarlo – l’intenzione è stata di invitare a un confronto sistematico, qualcosa di assolutamente necessario e vitale. Devo ammettere che, come individuo prima ancora che come direttore e artista, aiuta molto avere la possibilità di entrare in contatto con così tante differenti grammatiche teatrali e comprendere che c’è un sentire comune: anche quello di mettersi in crisi. Credo, infatti, che il maggior timore debba essere di avere delle certezze.
In questa edizione, come nella precedente, si è parlato tanto di borders, di muri, di attraversare i perimetri, di abbattere i confini – sia geografici che interiori – perché, dopo essere stati troppo, davvero troppo concentrati su noi stessi, c’è bisogno di aprirsi. Non si tratta solo o tanto dell’esperienza della pandemia. Nel tempo che abbiamo attraversato e vissuto, anziché mettere tutto in discussione, si sono incancrenite alcune posizioni. Ci si aggrappa a consuetudini ormai superate che non hanno più senso d’esistere, tanto più adesso.
Questa mia sensazione non è catastrofica, anzi: c’è bisogno di azzerare, di guardare oltre ciò che si è seminato, di “aprire le finestre” e riossigenare. Per stabilire un dialogo, prima fra sé e l’altro, e poi col pubblico, nel tentativo di restituire un senso possibile al teatro.
Come avviene la selezione degli spettacoli da inserire nel programma del Festival? Come funziona questa ricerca?
Scandagliando l’esigenza di cui parlavo: setacciando il pianeta, provando a comprendere quali siano le opere – non si tratta solo di grammatiche o di gusto personale – capaci di raccontare quel tema e il suo senso più nascosto. Dunque, abbattere i confini: non solo nel campo del gender, come da tempo facciamo nel nostro percorso di artisti, ma più in generale in un sistema che si fonda su codici binari. Per esempio, anche nella separazione fra teatro ufficiale e di ricerca, o fra prosa e danza.
Ciò emerge, per esempio, nel bando dedicato alle opere site-specifc, proposto da questa direzione artistica. E vale anche per la ricerca dei maestri a cui affidare le masterclass.
C’è, insomma, la viva curiosità di andare a cercare ovunque: non per costruire la “vetrina” più bella, ma per trovare quegli autori e quelle autrici che raccontano meglio questo presente. In generale, i lavori in programma, nella loro diversità, trasmettono la volontà di andare oltre le costruzioni sceniche.
Cosa vuol dire fare una direzione artistica? E in che maniera questo lavoro si interseca con la dimensione etica e politica?
Ho sempre pensato che il teatro sia politico: nel momento stesso in cui definisci una tua visione, un modo di guardare e di affrontare il quotidiano, prendi già una posizione. E la mia visione, da artista, mi accompagna anche nel percorso da direttore e operatore. Ovviamente, ciò non riguarda esclusivamente quegli artisti che esprimono un orientamento politico rispetto a un preciso contesto o a una condizione di riferimento. Per fare un solo esempio, il lavoro di Christane Jatahy, Leone d’Oro di quest’anno, non si lega soltanto alla sua denuncia rispetto a ciò che sta accadendo nel Brasile di Bolsonaro: più ampiamente, abbraccia il tema dell’esilio, dell’appartenenza e della distanza, del riappropriarsi delle radici attingendo al proprio vissuto e all’esperienza personale, in un Paese che non ti riconosce… Senza dubbio, sono questioni che ci portiamo e mi porto dietro da sempre. Continuo su questa strada ancora adesso, raccontando ciò che secondo me ha senso e valore, assumendo pienamente il ruolo che ricopro in questo momento. Me ne servo per amplificare quel senso politico che sento mi appartiene.
Con quali criteri vengono individuati gli artisti a cui attribuire il Leone d’Oro e d’Argento?
Il coraggio: il coraggio della propria coerenza, il coraggio di rischiare. Ancora una volta, non si tratta solo di estetica ma di una coerenza etica e morale. Questo per quanto riguarda il Leone d’Oro, che viene inteso come riconoscimento a un percorso finora compiuto. Il Leone d’Argento va invece a una ricerca agli albori, che porterà verso qualcosa che non sappiamo, comunque di diverso rispetto a dove ci troviamo ora. È una figura vettoriale che indica una direzione possibile.
Credo che il futuro operi adesso, già in questo preciso momento – è il rosso dell’azione. Se ci fermiamo ad aspettare, rimarremmo sempre “qui”. Non riesco più a tollerare la stasi: nel pantano in cui siamo immersi, c’è bisogno per tutti di movimento.
Quali sono gli obietvi della Biennale Teatro 2022, anche in relazione all’esperienza e agli esiti della scorsa edizione?
Come lo scorso anno, c’è stata una minuziosa ricerca: siamo simili a cercatori che setacciano la scena e scoprono delle pepite d'oro. Più nello specifico, cerchiamo di portare in Italia, non solo spettacoli di artisti già affermati, ma anche lavori meno noti oppure conosciuti soltanto all’estero. Allo stesso tempo, facciamo un lavoro di scouting attento alle nuove generazioni, per dar loro l’opportunità di potersi esprimere, di far intravedere le proprie galassie e gli inattesi arcipelaghi artistici che attraversano. E, non da ultimo, allo scopo di offrire loro una visibilità possibile. Per esempio, quest’anno abbiamo invitato operatori e direttori teatrali ad assistere alla presentazione dei lavori che hanno raggiunto la fase finale del nostro bando Under 35 dedicato alla regia. Al di là di chi, poi, vincerà, gli ospiti italiani e stranieri hanno potuto vedere degli spettacoli in nuce, magari innamorarsene e decidere, eventualmente, di sostenerli in futuro.
Come avviene la selezione degli spettacoli da inserire nel programma del Festival? Come funziona questa ricerca?
Per la prima edizione – nata durante la pandemia – naturalmente è stato un lavoro di studio “a tavolino”, sviluppato davanti a uno schermo. Poi, finalmente, si è potuto ricominciare a viaggiare: dalla fine dello scorso Festival ho ripreso a girare moltissimo in Europa, dalla Grecia alla Spagna, dalla Francia al Belgio e altrove. Ho scoperto che mi piace molto questa attività di scouting: dopo essermi dedicato, in quanto artista, per molto tempo alle mie creazioni, ora si tratta in un certo senso di lavorare per gli altri. Io e Stefano Ricci siamo due persone molto curiose e diverse, abbiamo prospettive e gusti in parte coincidenti e in parte differenti – lo trovo molto costruttivo, perché è una dinamica che si sviluppa attraverso continui stimoli e confronti. Questo ci porta a presentare in programma soltanto ciò che, come progetto, è frutto di una scelta condivisa al 100%.
Cosa vuol dire fare una direzione artistica? E in che maniera questo lavoro si interseca con la dimensione etica e politica?
La responsabilità è enorme. Soprattutto in un’istituzione come La Biennale di Venezia: come dicevo, si avverte già nella scelta degli spettacoli da proporre in programma, rispetto agli artisti e al pubblico. Ad ogni modo, andiamo dritti per la nostra strada, perché lo spettatore non dovrebbe uscire immutato dall'esperienza teatrale; anzi, penso che debba esserne modificato, in vari modi e misure. Credo che tuto ciò a cui si assiste in scena dovrebbe dare la possibilità di lavorare su sé stessi, instillando in chi osserva un’ampia serie di dubbi, domande, interrogativi.
In questa Biennale una novità è rappresentata dalle Late Hour Scratching Poetry…
Questa è se vogliamo una scelta perigliosa. Come si fa a non amare la poesia? Io non riesco a respirare se non ne leggo. Abbiamo pensato che la Biennale Teatro potesse essere un'occasione importante per farla riscoprire anche in Italia, in un contesto del tutto particolare. Con questo progetto volevamo creare un momento di convivio al calar della sera, per continuare, dopo gli spettacoli, con le parole di fuoco di Alda Merini. C’è un suo pensiero che, quando l’ho letto, mi ha colpito moltissimo: la poetessa descriveva i travagli di ciascuno nell’immagine di una spina che si conficca nella pelle, ed evocava la poesia come lo strumento che permette di trasformare quella spina e di farla diventare azzurra. Significa che la parola poetica dà un colore unico, quel qualcosa in più che rende accettabile la nostra “corona di spine”. Per declinare questo concetto in rapporto al Festival, quel che abbiamo cercato di fare quest’anno è di provare a tingere quella spina di rosso, anzi di ROT.
Con quali criteri vengono individuati gli artisti a cui attribuire il Leone d’Oro e d’Argento?
Conferire questi riconoscimenti è una scelta sicuramente forte. Il Leone d’Oro – quest’anno a Christane Jatahy, mentre nel 2021 è stato assegnato al regista polacco Krzysztof Warlikowski – è stato ed è un omaggio a carriere particolarmente significative per la scena contemporanea. Si tratta di un premio che va a sancire tuto ciò che queste figure hanno perseguito politicamente, eticamente, socialmente e artisticamente. Il Leone d'Argento, invece, è stato conferito lo scorso anno a Kae Tempest e, quest’anno, a Samira Elagoz: si tratta di una sorta di “previsione per il futuro” che premia artisti che, attraverso linguaggi disparati, stanno facendo percorsi strepitosi, aprendo orizzonti molto diversi da quelli che si potevano immaginare soltanto qualche anno fa.
Si chiude qui il laboratorio di scrittura critica della Biennale Teatro 2022. Abbiamo provato, con Roberta Ferraresi, a coinvolgere un gruppo in una riflessione sul piacere e la pratica del pensiero critico. Sono ragazzi e ragazze giovani e giovanissimi, super preparati, attenti, in ascolto. Abbiamo discusso, analizzato, spiegato, ascoltato. Ogni giorno ribandendo l’importanza della critica teatrale, la necessaria preparazione per fare questo strano “nonmestiere”, ormai ridotto a lumicino di coda delle pagine dei quotidiani e dei settimanali. I partecipanti hanno risposto con entusiasmo, generosità, passione.
È una bella opportunità – e per questo ringrazio Stefano Ricci e Gianni Forte, assieme alla Biennale – per riflettere con occhi nuovi su cosa significhi davvero fare critica. Poi capita di leggere le cronache veneziane di alcuni colleghi: pagine da cui sembra trasudare stanchezza, noia, scontentezza. Certo: giustamente ciascuno fa (facciamo) al meglio un mestiere ingrato. Capita di esprimere senza mezzi termini giudizi anche aspri sugli spettacoli. Questa è la critica. Ma appaiono, sulla stampa nazionale, anche articoli di chi, volendo magari “arbasineggiare”, vorrebbe fare il pezzo “di colore” e si riduce, ad esempio, ad argomentare sull'abbigliamento dei Direttori.
Ora la questione non è tanto il prêt-à-porter, quanto piuttosto antestetizzare il pensiero critico nel novero della battutina pungente, decontestualizzata rispetto al discorso che si va svolgendo e appiccicata in fondo, in tentativi non sempre riusciti di ammiccamento oltre la scena che chiudono – anziché aprire – al mondo fuori dal teatro. Anche perché Arbasino, come Savinio o Flaiano, sono ben lontani, vertici ineguagliabili. Così, gigioneggiare senza averne gli strumenti, credendosi arguti e aguzzi, giocare a fare i brillanti, non porta agli stessi esiti.
I sei partecipati al laboratorio, leggendo questi pezzi, mi guardano perplessi: è per questo che siamo qui? È questo il tanto invocato pensiero critico? Cosa è questo retorico esercizio di stile, questa banale ironia supponente, fuori luogo, autoreferenziale?
Non ho risposte, né metodi, né verità in tasca da trasmettere – trasmettere è parola grossa, al limite meglio suggerire – ai giovani allievi. Ma il futuro è loro, e questo futuro lo vorremmo diverso dalla noiosa routine di chi, banalmente, svilisce per superficialità il lavoro di un artista e l’intera categoria critica. Per fortuna, mi viene da dire, questi giovani critici e critiche presto saranno “firme”: e le immagino serie e attente, intelligenti e ironiche all’occorrenza. Si chiude la Biennale Teatro 2022. Abbiamo assistito a spettacoli, saggi, workshop, incontri. Ne resterà una traccia scritta, una memoria per il futuro: anche grazie al lavoro, quotidiano e serrato dei giovani che, nonostante tutto, vogliono ancora provare a fare critica.