Rosso:
è il rossetto della protagonista di Broke House di Caden Manson/Big Art Group;
è il sangue versato in Una foresta di Olmo Missaglia;
è la violenza della mascolinità tossica di Brief Interviews with Hideous Men di Yana Ross.
È la sacralità distrutta di un io relativo che diventa pubblico, che prende il sopravvento sul noi.
Il tema dell’autorappresentazione è comune ai tre spettacoli: Manson propone la disgregazione di una famiglia ossessionata dall’apparenza, dal successo e dal racconto di sé sui social. Missaglia narra lo smarrimento generazionale nella selva della contemporaneità che priva della propria identità e lascia spazio al citazionismo. Oggi vedremo come Ross disumanizza, concentrandosi su una sfera privata di un mondo maschile e misogino, “schifoso”.
Andrea Malosio, Francesca Rigato
Una struttura divisa in scomparti, tende di plastica tirate per delimitare gli spazi, schermi su cui sono proiettate strisce di colori sgargianti, fantasie animalier dai colori forti, carta argentata, scatoloni ammassati e qualcuno che vaga fra le stanze ma i cui movimenti, dalla platea, sono impossibili da seguire con continuità in questa casa-schermo che al contempo espone e nasconde.
Broke House di Caden Manson/Big Art Group lavora per accumulo, investendo il pubblico con una quantità di immagini tale da lasciarlo incapace di afferrare appieno la schizofrenica molteplicità della scena. Proprio come il mondo digitale che rappresenta, l’opera vuole essere immediatamente fruibile ma non esauribile, disordinata e magnetica al tempo stesso.
Allestito per la prima volta nel 2012, lo spettacolo arriva in Biennale in prima europea arricchito di rimandi al film Grey Gardens dei fratelli Maysles, all’artista statunitense Jack Smith e a Tre sorelle di Čechov, di cui è quasi una riscrittura. L’ossatura delle storie, di cui rimangono nomi storpiati e relitti di temi galleggianti in un mare di luci e suoni, è assorbita dalla cornice di un reality show.
Il filmmaker David, interessato a fare cinéma vérité, bussa a casa di Manny-Maša per girare una sorta di Grande Fratello sui personaggi della famiglia, macchiette le cui sceneggiate sono catalizzate dalla telecamera e ingigantite dalla consapevolezza di essere guardati. Oltre a essere contenuto narrativo, il reality contamina con il suo linguaggio anche il format: le riprese video live – realizzate anche tramite cineprese collocate nelle varie “stanze” –, sono proiettate sulle pareti-schermo della casa e sui muri del teatro. Lo sguardo dello spettatore è costretto a rimbalzare da una parte all’altra, perdendo di vista un corpo attoriale volutamente nascosto dalla scenografia: come in un telefilm che non si riesce a smettere di guardare, l’attenzione del pubblico è inevitabilmente catturata e deviata dal movimento guizzante dei video.
Nonostante il reality show sia un concetto ormai superato e dal sapore anni Duemila, con la sua invasiva disorganicità esso si presta a rappresentare alla perfezione il magma social iper-contemporaneo: ogni atto di questa messinscena tutt’altro che autentica accade nel tentativo parodizzato di trasmettere un’immagine patinata di sé stessi. Riri-Irina trascorre le sue giornate su un sito di incontri, sognando di fuggire con un ricco uomo di Pittsburgh; l’illusione cade in frantumi quando la migliore amica Jeri le ruba in un colpo tutta la popolarità diventando la sua sfavillante copia. Analogamente Manny si innamora di David e rimane deluso quando questi, a riprese concluse, se ne va infrangendo l’illusione di un’intimità che in realtà è sempre stata mediata dall’occhio cinematografico dell’obiettivo.
Nella sovraesposizione di informazioni, c’è qualcosa che rimane nascosto e centrale: una porta da tenere chiusa ma che, come i sotterranei di Barbablù, non si può che desiderare di aprire. Quando succede – nei passaggi fra un atto e l’altro esplicitati dalle didascalie proiettate –, ne emerge Olga, dall’aspetto androgino e “alieno”. Sono momenti di rottura in cui si incastonano spezzoni di citazioni cinematografiche (Un anno con tredici lune di Fassbinder e Week End di Godard) in un caos di luci rosse, strappi di carta argentata e musica infernale. Forse, come suggerisce il nome, Olga è la sorella più anziana per cui non c’è posto nel luminoso e velocissimo marasma del presente, ciò che si cerca di rimuovere dalla dimensione patinata dei social e che è destinato a diventare incontrollabile e a distruggere le sorelle.
La disgregazione totale della famiglia corrisponde allo smantellamento del dispositivo scenografico: in seguito a una lettera di sfratto, la casa viene smontata sotto lo sguardo della cinepresa di David che, alla maniera dei peggiori programmi televisivi, non smette di filmare la disgrazia degli abitanti. Solo quando in scena rimangono unicamente squallide rovine senza schermi, la telecamera si spegne.
Una superficie bianca, tre sedie blu disposte sul lato destro della scena e la stampa di un dettaglio pittorico da The remains of an archipelago dell'artista trentina Veronica Giovanelli, che ci proietta in un’atmosfera luminosa, ma ovattata, evocativa di “terre emerse e sommerse, con chiazze di colore”. Dietro, si celano quattro giovani interpreti: Lea Chanteau, Michele de Luca, Mizuki Kondo, Romain Pigneul, alla ricerca di un immaginario comune. Non hanno una meta precisa. Si scontrano, provando a definire il proprio cammino. Si incontrano, generando un coro a più voci. Un vuoto interiore attanaglia le loro vite. Sono lì, in un paesaggio essenziale, una vasta zona incolta, una terra di mezzo: Una foresta, come l'ha definita il regista vincitore dello scorso bando Biennale College Teatro - Registi Under 35, Olmo Missaglia.
Lo spazio è deputato all’artificio e si impone come dispositivo di delimitazione e demarcazione. Si ritrovano soli. È come se dovessero perseguire una sfida comune: essere all’altezza delle aspettative che la società impone. Brancolano, e, si chiedono: “hai mai l’impressione di non avere una storia tutta tua?”. Per ricucire le loro ferite, ricorrono anche a pensieri di grandi teorici, spaziando da Stoppard a Pasolini alla poetessa francese Annie Le Brun, stabilendo un ordine nella loro confusione, spingendosi a favore di un nuovo alfabeto, abitato da lemmi sconosciuti. Le voci si sovrastano generando caos, una reazione in grado di descrivere il loro tormento interno, cadenzandolo.
A un tratto, nuove traiettorie in quest’urlo di malessere generazionale condiviso sono state tracciate. Lo spazio non è più bianco. Sono state disegnate più vie: file di Haribo senza una fine, cartoni di pizza giacciono sul pavimento lasciando una traccia, un mazzo di fiori a terra segna un punto di arrivo; un vecchio k-way resta sospeso, non si ha più la necessità di indossarlo, ma avvolgerà un corvo, caduto in picchiata in scena, generando stupore, e subito dopo silenzio. Si evade, svestendosi, alla ricerca di senso, declinando il mondo reale in un immaginario che appaga. La realtà non sembra più impropria, diviene set privilegiato dove i protagonisti possono immaginare e inventare il proprio mondo. (V. B.)
Come accadeva nel teatro classico, anche ne La foresta di Olmo Missaglia la parola è affidata innanzitutto al Prologo. Un’attrice, dalla leggera inflessione francese, suggerisce l’argomento della pièce: evoca la dicotomia tra i suoi ambienti, la città e la foresta, l’urbano e il selvatico, il conosciuto e l’ignoto; mostra la soglia che le connette; fa largo ai personaggi che vi si avvicenderanno. Un runner occasionale, un impiegato stressato e una cantante in cerca di una parte avviluppano i propri percorsi fino a trovarsi ai confini di un bosco. Nella Commedia dantesca, in Cappuccetto rosso, nel Signore degli anelli, così come in molte altre opere narrative, la foresta è luogo di erranza e smarrimento, ma anche di presa di coscienza, superamento delle sfide e, infine, di rinnovamento.
Con l’abbandono della città, le storie dei personaggi di Missaglia deflagrano in una costellazione di brevi scene informate da una consumata estetica pop: le citazioni derivano quasi totalmente da film cult degli anni Ottanta-Novanta e dipendono da una logica connessa all’autorevolezza, tra gli altri, di grandi registi come Quentin Tarantino, Ridley Scott e Robert Zemeckis. Il riferimento non permette alcuna risignificazione del modello, ma si limita a una sua frettolosa imitazione. Allo stesso modo, i protagonisti non cercano di disconoscere o rinnovare il passato, ma vi si rifugiano terrorizzati. Le crisi e le ansie personali, economiche, famigliari impediscono loro di immaginare qualsiasi possibilità di futuro e li respingono nei periodi lieti dell’infanzia, al sapore dei ghiaccioli a bordo piscina, alle corse in bicicletta per evitare un temporale.
Essi appaiono, così, incapaci di superare il groviglio d’alberi in cui si trovano, e, asserragliati dal buio, si stringono gli uni contro gli altri, angosciati in attesa dell’alba. (M. V.)
Agli spettacoli della Biennale Teatro di quest’anno piace cominciare prima: il film di Christiane Jatahy era già iniziato all’ingresso degli spettatori; gli attori di Olmo Missaglia si intravedevano senza troppa fatica dietro il telo-paesaggio a fondale della sua Foresta; la Broke House della compagnia statunitense Big Art Group era già lì in tutto il suo eccesso e in tutto il suo caos. La novità innegabile di questa quarta sera – fanno intuire le recensioni – sarà entrare a teatro e passare, prima di potersi sedere, tra due attori del porno che fanno sesso.
Eppure, ci si può chiedere se sarà il sesso in scena per davvero, o solo quello, a far discutere a fine spettacolo. La regista Yana Ross sa cosa vuol dire leggere le stroncature di una critica scandalizzata, o fare i conti con una parte del pubblico che se ne va. Nata nella Mosca del 1973 e cresciuta in Lettonia sotto l’Unione Sovietica, dal 2019 vive a Zurigo, dove è parte del team artistico dello Schauspielhaus. I testi su cui ha lavorato, classici e contemporanei, le sono sempre serviti per parlare dei Paesi in cui ha vissuto portandone in scena i tabù, cioè giocando sempre sul limite del non consentito. Spesso, però, è stato il suo modo di combinare contenuto e forma ad aver turbato: quando in Our class, nel 2013, mise in scena il passato della Lituania e l’elaborazione della memoria collettiva dell’Olocausto, per esempio, non fu tanto il tema a essere scomodo o insopportabile, quanto l’apparente incompatibilità tra soggetto e registro, tra la materia e lo stridente tono sarcastico con cui veniva affrontata.
Anche in questo caso Ross sembra voler lavorare sulla discrasia tra contenuto e forma. Il sesso in scena è violenza solo nella misura in cui viola le nostre aspettative: ai due attori del porno, in fondo, è semplicemente chiesto di fare il proprio lavoro. A livello teorico, coinvolgerli non è diverso dall’aprire il cast a un cantante o a un musicista: non c’è nessuna violenza, nessun illecito, nessuna amoralità. Forse, un rapporto sessuale sul palco può invece servire a spostare la soglia di ciò che lo sguardo sopporta, e dunque a cogliere che la vera violenza sta in ciò che sul sesso si dice nelle due ore successive, a partire dalle Brevi interviste con uomini schifosi di David Foster Wallace.
Sulla stessa scia dello scrittore statunitense, la scelta di Ross è agire sul disturbante. Già nel 1999 Wallace aveva intuito quanto fosse urgente ridiscutere la virilità, ripensare lo sguardo maschile sul sesso o problematizzare nuovamente la pornografia, ma lo aveva saputo fare in modo spiazzante, grazie a una forma narrativa del tutto nuova e in fondo anti-autoriale, anti-virile: le interviste che davano il titolo al libro, intervallate a brevi racconti, erano in realtà monologhi di uomini soli, dove le domande erano paradossalmente ed efficacemente tagliate. Nel suo palesarsi schifosa, la mascolinità si distruggeva da sola: non serviva nessun interlocutore, nessun nemico. È interessante che questa forma ibrida dell’intervista mancata parli, oggi, alla scrittura teatrale: per esempio, vorrà pur dire qualcosa il fatto che questo testo vada in scena in Italia per la seconda volta in quattro mesi (ci ha appena lavorato anche il regista argentino Daniel Veronese, insieme agli attori Lino Musella e Paolo Mazzarelli, per una produzione debuttata lo scorso febbraio al FOG Festival della Triennale di Milano). Al di là del sesso, al di là di quanto ci sentiremo voyeur o di quanti di noi lasceranno l’Arsenale stasera, bisognerà capire con quali altri strumenti il teatro di Ross saprà sostituirsi alla scrittura di partenza e a quel modo tanto scomodo e tanto vero di narrare il potere e, soprattutto, il suo abuso.