C’è un tempo in cui tutto appare bianco, candido, pulito. Poi, arriva un momento in cui il nero macchia per la prima volta il bianco, ed è il punto in cui pensiamo che non saremo più in grado di vedere come prima. Come quando si mangia troppo e si è convinti che non proveremo più appetito, mai più. Come quando ci si innamora per la prima volta e tutto quello che viene dopo pare superfluo. C’è un istante preciso in cui tutto appare o bianco, o nero: è l’adolescenza, che poi, più che un periodo, rimane piuttosto un approccio. Andare avanti senza mai pensare di poter tornare indietro, essere di sinistra o di destra, sapere esattamente che cosa fare nella vita o fuggire via lontano. Chissà se mai finirà l’adolescenza, chissà se potremmo tornare a vedere il mondo come quando era solamente bianco. Ora, tutto è pieno di colori, che sono gli errori che macchiano gli opposti di nuovi significati; che sono i ricordi che si tatuano sulla superficie dei nostri mille mondi. I confini, a guardarli, sono linee sottili e lunghissime che curvano e si piegano, e forse non fanno altro che mettere in contatto zone che non avrebbero mai voluto esserlo. Un po’ come i sentimenti, un po’ come le persone. C’è uno spazio per tutto tra il bianco e il nero, e questa Biennale, come un’adolescente che cerca delle risposte, abita nelle sfumature di significato fino a quando non sarà sazia di nuovo.
Clara Fedi
Lo iato irrecuperabile tra il piccolo guscio della casa e quello del mondo, tra il lutto e il collasso stellare, rappresenta la morsa in cui viene messa in scena la vita delle Tre sorelle cechoviane, nella lettura della compagnia Muta Imago, fondata da Claudia Sorace (regia) e da Riccardo Fazi (drammaturgia e suono). L’unica notizia che arriva da oltre-muro non è destinata a deflagrare, ma costituisce una cornice che, ispessendola, si sovrappone alla morte di loro padre. Mentre Irina e Ol'ga giocano avvolte in un’incoscienza infantile, la bocca di Maša sancisce un punto di non ritorno: ciò che apprende dal giornale è, infatti, il meccanismo di morte dei corpi astrali e la conseguente formazione dei buchi neri. Una scena chiarificatoria dell’operazione di Muta Imago non attarda ad arrivare. La medesima lettrice prende in mano una sfera e, posta sotto uno stretto cilindro di luce, inizia a farla girare. È così che sulle pareti della sala, che claustrofobicamente circoscrivono l’intero dramma, cola la volta celeste, incistando i muri di galassie. Ma questa conversione repentina dell’abitazione a imago mundi, a cartografia astronomica – ben riuscita grazie al sapiente uso delle luci di Maria Elena Fusacchia – pare non sortire effetto alcuno sulla solitudine a cui le tre sorelle sono destinate. Tutto il contrario, invece: la velocità con cui le stelle vorticano nella sala aggrava la percezione di una loro vita lenta e isolata. E così il cielo, grimaldello per far apparire i loro corpi rimpiccioliti, soltanto umani, è tanto più efficace a illustrare lo spaccamento che una coscienza risvegliata – una coscienza di fine e di finitudine, di esistenza minima – può produrre. Nel parallelismo innestato tra la morte del padre e la morte dei corpi galattici, dunque, la trama si sdoppia: ora corre sul piano biografico, ora corre sui binari più ampi della specie umana, allacciati entrambi dalla perdita oscena dello spazio e del tempo. E la casa, in un tale abisso, è piena di futuro. “Come sarà?”, si chiedono le tre sorelle, interrogando il mondo dopo di loro. Se il raggiungimento di Mosca, oltre a riscattarle dall’afasia provinciale, segnerebbe il loro approssimarsi al corpo della madre che è lì sepolta, l’attesa che le separa dalla partenza verso la capitale si carica di uno spirito fin de siècle. Balletti e risa, come microliti di una “gaia apocalisse”, si alterano in pratiche divinatorie. La lettura della mano e della sfera di cristallo o, ancora, i continui risvegli dallo stato apnoico delle varie trance sono solo alcuni dei modi in cui la casa si fa scenario di una moltitudine frenetica di crisi e sfasciamenti. “Qui dentro c’è inferno”, confida una delle interpreti, indicandosi il corpo ed il cuore. In questo luogo oramai perso, ognuna delle sorelle – interpretate da Federica Dordei, Monica Piseddu e Arianna Pozzoli – si ridesta e risprofonda più in basso, tracciando il passaggio da un atto all’altro come procedendo di infero in infero, cambiando le proprie sembianze. Già viste ora come sorelle ora come streghemacbettiane, la scena del carnevale, con le musiche dal vivo di Lorenzo Tomio, è occasione per trasformarsi in diavoli, e le fiamme dell’incendio che divampano, per seppellirsi. Infine, sotto una notte blu, regrediscono sino allo stadio primo dell’evoluzione umana: la scimmia. All’unico altrove possibile che era giunto dal giornale viene dedicato il finale. L’unica luce che erompe e permette alle tre sorelle di uscire dalla stanza è quella dell’apocalisse.
C’è un altro mondo lontano dai palchi delle Tese e del Piccolo Arsenale, distante da spettacoli e incontri; anzi, ci sono tanti piccoli mondi, dislocati per le strade di Venezia e della terraferma. Si tratta dei workshop di Biennale College Teatro, organizzati ogni anno. Fra questi, uno è situato particolarmente fuori dal centro: il laboratorio diretto dal collettivo anglo-tedesco Gob Squad si trova infatti a Forte Marghera, dov’è collocata anche l’installazione Elephants in Rooms che ha inaugurato il Festival. Per arrivarci, si attraversano ponti e sentieri, le erbacce del terzo paesaggio salutano dagli angoli dei marciapiedi, il caldo imperversa, finché non si arriva davanti agli spazi delle Ex Officine. Il workshop è allestito al secondo piano: entrando c’è odore di legno vecchio, tutto intorno una distesa di oggetti e ricordi accatastati, tra falegnameria e precedenti progetti teatrali. Se si osserva da fuori un contesto formativo, la sensazione è sempre quella di essere un antropologo – lo penso mentre salgo le scale che portano alla sala prove. Quando entro, è in corso una performance: due ragazzi sono intenti a cercare di far ridere una loro compagna, il cui volto è proiettato su di uno schermo. Si tratta di qualcosa a metà tra la stand up comedy e un delirante show televisivo, con lo scopo di causare ilarità; a un certo punto, esplode un momento karaoke, un'isterica versione di My Heart Will Go On cantata tra le lacrime. Quest’immagine può essere un primo schizzo per catturare il ritratto dell’atmosfera che abita il laboratorio di Gob Squad: c’è un'aria giocosa, rilassata ma intrisa di idee, di febbrile voglia di creare. È l’ultimo giorno e si presentano tre lavori, creati a partire da prompt. Gli spunti sono tanti, sparsi su un tavolo sotto forma di pile di fogli colorati: confessarsi a un gatto come fosse un parente morto, il brusio di una cena di famiglia, l’uso dello slow-motion, e così via. La sfida è aprirsi, fidarsi, lasciare che idee e vulnerabilità fluiscano nel lavoro condiviso. A fare da tutor sono Simon Will e Sean Patten, due membri storici della compagnia. Chiedono ai dieci partecipanti – un gruppo proveniente dalle più disparate zone del mondo – diattingere al proprio repertorio personale per dare forma a un percorso comune. E l’invito pare essere accolto di buona lena: attorno ai tavoli o tra gli spalti della piccola sala, i ragazzi si confrontano, parlando un inglese spesso segnato da forti accenti. Portano pezzi di Russia, di Malesia, d’Italia. L'obiettivo in questi cinque giorni era creare fondamenta per affinare la capacità di produzione collettiva, trasmettere alle nuove generazioni le pratiche della co-creazione. Prima di stringersi per un’ultima volta in cerchio, tutti si riuniscono per bere un caffè, rigorosamente fatto nel corso di una delle performance. Si tirano le fila del lavoro sviluppato in questi giorni senza gerarchie, si commentano i progetti presentati riflettendo su cosa rimanga. Si parla di libertà ritrovata, della possibilità di sperimentare insieme agli altri, ma anche delle conoscenze umane, della sintonia che, in così poco tempo, si è venuta a creare.
Nello sfarzo labirintico d’oro e di velluto del teatro La Fenice, prende vita il workshop di Vaiva Grainytė, Lina Lapelytė, Rugilė Barzdžiukaitė per la Biennale College Teatro 2024. Gli allievi si riscaldano sul pavimento nero in pvc e si muovono fluidamente sulla plastica a terra, alcuni sono seduti e scrivono compulsivamente sui taccuini, altri battono un ritmo su un tavolo malconcio, una ragazza accenna un passo di danza. L’immediata sensazione è che le tre artiste lituane – che si occupano rispettivamente di scrittura, musica e arti visive – abbiano selezionato per il laboratorio nove persone dai molteplici campi di esperienza, un ensemble notevolmente eterogeneo per poter attingere a bacini creativi compositi. Il sospetto diviene certezza chiacchierando con i partecipanti: non solo gli allievi hanno capacità differenti gli uni dagli altri, ma possiedono competenze transdisciplinari – ingegneri che si occupano di sonoro e drammaturgia, sociologi registi, attrici compositrici, e così via. Le tre maestre hanno tenuto “cattedra” per un giorno ciascuna, ad esclusione del primo e ultimo in cui la lezione è stata svolta in presenza di tutt’e tre. La giornata dedicata alla scrittura, guidata da Grainytė, ha visto il gruppo muoversi tra meditazione, poesia e drammaturgia. Lapelytė ha invece condotto i laboratoristi per le calli di Venezia, lasciando che si perdessero e vagassero, mentre indossavano degli auricolari per l’isolamento acustico, abituandosi a questo nuovo mondo privato del sonoro per tornare, subito dopo, alle voci e ai suoni della città, che risultano così amplificati. Barzdžiukaitė ha suddiviso i nove in gruppi di tre, chiedendo loro di lavorare su sovrapposizioni di immagini per creare un’opera unitaria a partire dalle idee di ciascuno. L’ultima lezione ha inizio con una sessione di meditazione: fluttuando nello spazio, immersi nei respiri, si arriva a scoprire che una mano non è solo una parte del proprio corpo, ma un frammento dell’universo, dando vita a una riflessione su un concetto di unità che mette in continuità il genio, la carne, l’opera e ogni cosa esistente. Barzdžiukaitė chiede quindi ai partecipanti di esprimere le proprie opinioni in merito all’attività del giorno precedente, stimolando un dibattito animato e brillante sulla metodologia di lavoro e sulle difficoltà che insorgono laddove venga chiesto a più personalità di convogliarsi in un’unica produzione. Dopo una breve pausa – e un tentativo di arrampicarsi verso le finestre della sala prove per chiudere le persiane – viene proiettato un progetto video basato sulla performance delle tre artiste lituane vincitrice del Leone D’Oro alla Biennale Arte del 2019, Sun&Sea. Si tratta di un work in progress, difatti all’inizio appare la scritta lapidaria: “TITLE”, poiché ancora manca un titolo vero e proprio. Il filmato riprende l’allestimento della performance-installazione al Taxi Park di Vilnius. Qui, al centro della sala ovale del piano terra, si colloca la spiaggia senza ombrelloni in cui si esibiscono i e le performer, mentre il pubblico è disposto lungo le balaustre delle rampe dell’enorme parcheggio, simbolo architettonico del quartiere, nel tipico stile del brutalismo sovietico. La registrazione è effettuata in modo che la macchina da presa, allargando il campo d’azione, inquadri la pièce trasformandola in una cappella affrescata, mentre il pubblico ‘concentrico’ appare sottosopra. La multimedialità dell’opera si manifesta così ancora più evidente: alla dimensione della scrittura dei testi, della composizione musicale e canora, della distribuzione di corpi, oggetti ed elementi visivi, si somma una dimensione filmica, capace di restituire dettagli, particolari, primi piani, campi lunghi e lunghissimi. Un’elaborazione artistica basata sulla convergenza mediale che le tre artiste tentano di infondere nei propri allievi, ai quali non si può che augurare di raggiungere tale obiettivo con entusiasmo e passione.