Il primo ricordo di Miles Davis riguarda “una fiamma blu che salta fuori da una stufa”. Per lui è un momento rivelatore, un’epifania: “Fin da allora, ho sempre pensato e creduto che i miei movimenti avrebbero dovuto spingersi in avanti, oltre la sommità di quella fiamma”, così scrive lo stesso Davis nella sua Autobiografia, ripensando a quel momento. Un colore che diventa l’oracolo di un destino, l’elemento propiziatorio di un’incandescenza artistica. Per il grande trombettista jazz, il blu sono le Colonne d’Ercole che, una volta viste, ridisegnano le proprie possibilità, l’imprevisto, l’inatteso che innesca l’Amour Fou.
Con questa figura in testa, accogliamo il tema della nuova edizione della Biennale Teatro, Niger et Albus, come un invito a cercare nella realtà con cui interagiamo – intessuta di griglie e dicotomie, di reiterazioni estenuanti e di déjà vu – quel baluginare estraneo e inconsueto, quella fiammella colorata che, dopo averla incontrata, non possiamo più ignorare. Un’immagine che reinventa i tragitti, i contorni e gli spessori dell’esistente, che allarga il campo delle identità e dischiude nuove possibilità d’incontro e di creazione. La fiammella blu di Miles Davis indica l’importanza di calare sul mondo uno sguardo esorbitante, che oltrepassi il già dato, il bianco e nero a cui siamo abituati. Contaminare questa polarità di una visione inaudita. Perché, come dice James Hillman: “se il bianco rifiuta di essere corrotto rischia di rimanere uno stato astratto”, e così farà il nero, chiuso nella sua mortale uniformità.
Francesca Rodesino
“Io sono convinta che questa ragazza voglia il potere”, afferma Lua, alter ego della regista e interprete Luanda Casella, mentre tenta, nel Teatro Piccolo Arsenale, di mettere in scena la sua Elettra. Abigail (Abigail Gypens), Bavo (Bavo Buys) ed Emma (Emma Van Ammel), invece, vogliono ciascuna per sé una parte da eroina mitica per sfuggire all’ombra di figure materne ingombranti, alla maledizione atridica con il suo ciclo di dolore e di vendetta. Ognuna delle tre attrici possiede quindi il background biografico per mutarsi in una potenziale perfetta Elettra, materiale grezzo che Lua vuole rendere tragedia con l’aiuto stanislavskiano dell’assistente Lucius (Lucius Romeo-Fromm). Elektra Unbound, insomma, è un’ironica riflessione sulle infinite possibilità, ma anche sulle trappole, dell’attualizzazione del mito.
La scenografia di Shizuka Hariu è un monte Olimpo dominato dalla spiritualità ieratica del blu e del bianco. E’ anche uno spazio digitale, che – attraverso la proiezione di frammenti di testo – rappresenta un subconscio collettivo, invaso com’è dal coro silenzioso di voci nella testa che alberga in ciascuno di noi: non detti, desideri innominabili, ricordi riscritti per sembrare migliori a noi stessi.
Lua, dea sul suo trono da giudice di talent show, scava nella storia delle tre potenziali interpreti con cinismo, rigirando il coltello in piaghe di esistenze distrutte: la regista sfrutta per le proprie ambizioni artistiche la dipendenza di Bavo, i disturbi alimentari di Abigail e la mitomania letteraria di Emma. Ma, cercando di portare a teatro l’autobiografia, si rischia di rinunciare all’arte, lasciando entrare piuttosto la tragedia nella vita.
Dopo aver giocato come una divinità capricciosa, come se la sua volontà fosse davvero l’unica svincolata dal fato, Lua scopre di essere una Cassandra incompresa. Anche la regista è miseramente dipendente da un destino che è nelle mani di altri, cioè delle tre attrici candidate al ruolo della protagonista. Al tempo stesso Furie e Moire, ma anche novelle Clitemnestre, le tre potenziali Elettra sono ora infatti in tutto simili alle loro madri, già pronte a perpetrare il trauma generazionale.
Sono dieci cassiere, sette registe, quattro drammaturghe, tre sorelle, tre Elektra, due crisalidi e una Cassandra. Animano i palchi e i dietro le quinte, si occupano di scenografie, costumi, arti visive, sonoro, tecnica; scrivono, recitano, recensiscono, tengono classi di workshop alla Biennale College. Ma non solo. Dirigono uffici stampa, programmano, organizzano, sono referenti e tuttofare, trovano soluzioni a ogni problema; sono interpreti, traduttrici, esperte nelle lingue dei segni, curano la comunicazione di artisti e istituzioni. Hanno look differenti, capelli lunghi o corti, colorati o monocromatici; indossano occhiali da vista o da sole; una va in giro con tre borse alla volta, l’altra non rinuncia alla scarpa elegante. Qualcuna è totalmente priva del senso dell'orientamento, una ama camminare, la seconda meditare, la terza il prosecco.
Possiedono visioni divergenti, gusti dissimili, estetiche opposte e creano opere uniche. Eppure, subiscono rappresentazioni omogenee: una femminilità sulle scene che è ritratta troppo spesso isterica e nevrotica, ossessionata dalla giovinezza e dalla bellezza. Sono tragiche, parlano troppo o non parlano affatto, hanno reazioni spropositate o non sono niente più che i loro corpi. Queste raffigurazioni tradizionali hanno portato intere generazioni di ragazze a identificarsi con personaggi maschili che incarnavano potere, vigore e, banalmente, individualismo. Se la mancanza di univocità è l’emblema dell’appiattimento su stereotipi sempre uguali, al tempo stesso è stata anche il motore che ha dato vita al bisogno di contro-narrazioni: archetipi femminili che vadano oltre l’essere civettuole, angeli del focolare o ingannatrici, donzelle da salvare e infelici croniche, superficiali, invidiose, impotenti.
Ecco aprirsi una nuova stagione, in cui si lavora per nuance. Luanda Casella in Elektra Unbound porta in scena un gradiente ampio: parte da una bambolina che sceglie – ma a volte subisce, come tutte noi – la bellezza standardizzata e la sensualità; e arriva a forme neutrali, queer e non binarie. Scrivendo caratteri differenti e utilizzando sapientemente trucco, parrucco e abbigliamento, illustra il legame tra immagine, raffigurazione, stereotipo e personalità. Nel fare ciò, propone uno studio sui rapporti familiari che si concentra su figlie e madri – d'altronde muove dall’Orestea –, sull'eredità generazionale dei traumi, consentendo alle sue Elettra di compiere il matricidio di proprio pugno, senza l'attesa di un Oreste portavoce del maschile e quindi della forza.
Parallelamente, Rugilė Barzdžiukaitė, Vaiva Grainytė, Lina Lapelytė, nei loro lavori Have a Good Day! e nel precedente Sun&Sea, svolgono una ricerca connessa all'immagine dei corpi delle donne nella loro eterogeneità. Dimostrano, così, l'assenza di uno standard o di una norma, comprovando la possibilità di identificare il femminile a prescindere da statura, muscolatura, peso, colore di pelle, occhi e capelli, ma anche al di là dei registri vocali e dei racconti di cui si fa portatore.
La strada è ancora lunga per lasciarsi alle spalle i modelli e le categorizzazioni. Affinché si possa uscire dalle narrazioni di luoghi comuni in tutti i generi, deve essere percorsa insieme, per aprirsi a uno spettro che operi verso il molteplice e non nel singolare, consentendo al teatro di avere personaggi rotondi e sfaccettati, piuttosto che compressi in maschere ed emblemi. È solo lavorando sulla pluralità che si può andare più a fondo, scardinando visioni e rappresentazioni imposte da secoli: un'azione coraggiosa in grado di rivitalizzare l'arte e condurla verso nuovi percorsi di realtà, scrivendo il futuro, anziché cancellando o censurando il passato.
A volte si ha la sensazione che la parola e il suono stiano lasciando il posto al visivo e al performativo, tuttavia la recente nascita dei Sound Studies in ambito teatrale e la sempre maggior commistione tra concerti e spettacoli dicono il contrario. È innegabile l’esistenza, in Italia, di una “scuola di pratica vocale” che ha preso piede in modo particolarmente rilevante tra la fine degli anni Novanta e l’inizio dei Duemila, nonostante le pubblicazioni a riguardo nel nostro Paese siano ancora poche e frammentate.
Questa corrente non si occupa semplicemente di lavoro sulla voce o sulla recitazione; il tentativo è anche quello di creare un repertorio audio che permetta di costruire luoghi ed esperienze, come ha insegnato l’opera di Chiara Guidi col suo inesauribile archivio compositivo personale – prima nel percorso condiviso della Raffaello Sanzio ma anche, poi, nei progetti individuali.
Anche in questa Biennale Teatro si riconferma la necessità di esplorare e formare lo spazio attraverso i dispositivi sonori e la fisicità. A partire da Have a Good Day!, messo in scena dal trio lituano composto da Vaiva Grainytė, Lina Lapelytė e Rugilė Barzdžiukaitė: una partitura per dieci cassiere, una sinfonia nevrotica che si fa metafora dell’alienazione capitalistica. Nello spettacolo, la lingua lituana si fa ripetitiva, quotidiana e uniforme, intervallata dalle note di un pianoforte – posto a lato della scena – e dal rumore dei registratori di cassa. Il dolce coro di origine popolare nasconde sotto di sé una presa di coscienza: la società ci sta automatizzando.
Anche Cenere di Stefano Fortin, presentato pochi giorni dopo in prima assoluta con la regia di Giorgina Pi, lavora sul linguaggio, sulla parola. La scena è spoglia al di fuori di un piccolo gruppo di microfoni su asticelle e fasci di luce. È il racconto del Narratore a creare gli ambienti in cui si muovono i personaggi; attraverso la sua voce viene evocata la cenere del titolo, la sentiamo posarsi sui capelli, rendere l’aria pesante. Veniamo trasportati tra una Roma decadente, gli anni del G8 di Genova, il soffocante appartamento dove tre poliziotti trovano un suicida. Infine veniamo lanciati da una chitarra elettrica suonata dal vivo, tra le luci stroboscopiche e il fumo, in un delirio psicotico, un’ultima squallida festa nella provincia di Este, prima della morte.
Portano una drammaturgia sonora anche i Muta Imago, compagnia romana fondata da Riccardo Fazi e Claudia Sorace, che dai suoi esordi lavora sulla convivenza tra teatro visivo e performativo e sulla centralità del sound design. Presentata sabato 22 alle Tese dei Soppalchi, la loro riscrittura di Tre Sorelle è un lavoro sulla memoria e il ricordo. L’importanza dell’audio è subito suggerita dalla consolle a vista, da cui Lorenzo Tomio cura la regia sonora. Curioso è notare come in tutti questi spettacoli i musicisti siano anche performer: occupano uno spazio in scena, suonano dal vivo, la loro presenza è volutamente centrale e sottolineata.
Protagonista di Tre Sorelle è la voce scomposta e frammentata. Rimbalza tra Olga, Masha e Irina, che, nel loro essere un piccolo coro, si fanno voce unica, a incarnare tutti i personaggi del testo di Cechov. Lo spettacolo inizia con una fiammella creata dalle mani delle donne: il fuoco della memoria. Ma non è solo la gestualità a parlare, nel silenzio della sala sentiamo fin le minime variazioni del respiro delle attrici; inizialmente controllato, delicato – quasi un fruscìo – che cresce assieme alla fiamma, si fa poi rapido e affannato, prima di esplodere.
Nonostante la presenza di una scenografia, lo spazio è in realtà continuamente modificato dalla voce e dai rumori, che hanno un loro peso specifico. Così, a dare forma a questa scatola dei ricordi sono i suoni: una vecchia canzone che esce dalla radio, la chitarra che accompagna i momenti emotivi più forti, le percussioni che rievocano temporali e tempeste, il piede di una delle sorelle che sembra possa far crollare il pavimento. Quella che sentiamo è una casa che non c’è più, che forse non c’è mai stata: un mausoleo di memorie costruito da echi e pronto a scompaginarsi da un momento all’altro.