Ci fu un tempo antichissimo in cui le civiltà del Mediterraneo svilupparono una fitta rete commerciale, dando vita a un panorama ricco e prospero, in cui si ritiene condividessero una lingua scritta per gli scambi e la rendicontazione, una forma di comunicazione la cui funzione è assimilabile a quella dell’odierno inglese. In un batter d'occhio, però, i regni arcaici scomparvero; le cause non sono certe, ma si ipotizza che un insieme di
calamità naturali, guerre, invasioni e carestie abbia portato alla caduta di intere civiltà, come quelle micenea e ittita. Non è tutto: la scrittura stessa scomparve insieme a esse. Solo il greco, vari secoli più tardi, raggiunse una forza economica e culturale tale da diffondersi sulle stesse sponde, entrando inoltre in contatto con persiano e sanscrito. Si tratta della culla in cui è nato quello che poi si è diffuso come teatro europeo.
Lungo le coste dell’Italia sorgerà, più avanti, la civiltà romana, destinata a diventare la più grande potenza egemonica dell'antico mondo di ponente: un impero fondato sull'unità linguistica che rendeva possibili la burocrazia e la pubblica amministrazione. La tradizione e l'influenza del latino condizionano tutt'oggi quattro continenti: dall'italiano nazionale alle lingue regionali, dal francese europeo a quello nordafricano, dal portoghese della Lusitania alle sue varianti sudamericane e asiatiche, dallo spagnolo della penisola iberica a quello di Argentina, Cuba e molti altri Paesi.
Tra forme di teatro e codici, il debito con il latino è difficile da pagare: ecco che Niger et Albus si fa pegno di tale obbligazione.
Ilenia Cugis
In un'edizione della Biennale Teatro già ricca di sorprese e innovazioni, Elektra Unbound di Luanda Casella emerge come provocazione e riflessione. Seguendo la scia dei tragediografi dell’antica Grecia, la regia reinterpreta il mito di Elettra in una narrazione poetica e tagliente, che racconta di potere, identità e giustizia. Sono le dinamiche sociali a circoscrivere il problema collettivo proposto in scena: una madre alla ricerca costante della figlia perfetta, un’altra totalmente assente, un’altra ancora che asseconda la follia della propria prole pur di non fare i conti con la realtà. Si tratta di una pièce sensibile e maledettamente realistica, incentrata sulla debolezza della mente umana, sull’esplorazione delle dinamiche quotidiane e delle lotte per l'autonomia personale.
Il chiacchiericcio di circostanza si affievolisce tra le poltroncine porpora del Teatro Piccolo Arsenale, quando il rumore dei tacchi di Lua, una regista egocentrica e ossessionata dalla sua arte, riecheggia in scena. La protagonista è incarnata dall’interpretazione imponente della stessa Luanda Casella, affiancata da Lucius Romeo-Fromm, coreografo, qui nelle vesti di un intrepido assistente, Lucius. Divertito e appagato mentre gioca a fingersi Freud, accompagna la protagonista durante le audizioni del suo spettacolo ancora da fare.
A contendersi la parte di Elektra sono in tre: Abigail Gysens, Bavo Buys, Emma Van Ammel, che cedono ai personaggi in scena i loro nomi nella vita reale. Ancora non sanno che di lì a breve saranno portate allo stremo delle forze, spinte oltre ogni limite, fisico e mentale.
Elektra Unbound assume così la forma di uno specchio che riflette la condizione psicologica degli esseri umani, oggi troppo concentrati ad assecondare i desideri altrui. Come una fragile Abigail, una Emma abbandonata a sé stessa, una Bavo che fa da balia a sua madre, pur non volendo, scendiamo a compromessi e viviamo le vite che altri ci impongono. Tra paure e insicurezze, ci rifugiamo dentro bolle di illusioni, reprimendo la nostra indole al fine di accontentare gli altri. Ma non siamo più noi, la nostra identità si dissolve. Vittime della metamorfosi di una società che premia individui senza personalità, subiamo ogni giorno processi di omologazione. Dunque, gli istinti dirottati, corrotti, interrotti verso sentieri che non sono i nostri, si portano via pezzi di identità.
Markus Öhrn indaga con sguardo ironico e accanito la società e le ideologie del nostro tempo, che, sotto il manto del progressismo e della tolleranza, macinano vecchi luoghi comuni e pregiudizi. Le sue opere teatrali sono favole nere, riti che invertono ruoli e ribaltano esiti, incarnando prese di posizione politiche contro le mistificazioni contemporanee.
Öhrn nasce nel 1972, in Svezia, dove frequenta l'Istituto d’arte Konstfack, con sede a Stoccolma. Prima di essere un uomo di teatro, dunque, è un artista visivo che lavora in bilico tra le arti. Le sue opere mescolano performance, cinema, video, teatro e scultura, un armamentario di linguaggi e saperi plurali per scandagliare i versanti oscuri dello spazio domestico come della pubblica piazza.
Conte d’Amour, presentato al festival di Avignone nel 2012, è la sua prima creazione teatrale. Qui, Öhrn si confronta con la sconcertante vicenda, avvenuta in Austria, di un padre che sequestra la figlia e ne abusa per ventiquattro anni. Si tratta del primo episodio di una trilogia sui mali della società patriarcale d’oggi, insieme a We Love Africa and Africa Loves Us (2012), dove la prevaricazione maschile s’intreccia al razzismo latente, e a Bis Zum Tod (2014), un’indagine sulla violenza che esplode fragorosa dietro le serrande di una casa abitata da una famiglia tradizionale ed eteronormata.
Per la prima volta, quest’anno, Öhrn presenterà una sua opera alla Biennale Teatro, anche se sono già diverse le sue frequentazioni dei circuiti artistici italiani – su tutte il progetto Azdora, che aveva portato al Santarcangelo Festival nel 2015. Le ‘azdore’ sono le casalinghe romagnole, incontrate nell’ambito di una residenza, che l’artista svedese fa esibire come componenti di un gruppo black metal. L’obiettivo è ancora una volta etico e sociale, perché alle azdore non sarebbe concesso ‘evadere’ dal loro ruolo di angelo del focolare, che presta disponibilità e devozione assoluta alla causa della famiglia. Nella metamorfosi, il volto di queste donne è trasfigurato da un trucco pesante e si fa maschera: due grandi occhi e una bocca di color nero che contrastano con il bianco del viso, ammiccando al maquillage di Marilyn Manson. Iperbole dell’identità umana, la maschera assume alcuni tratti della persona e li porta all’eccesso, ma essa è anche copertura del volto, “vuoto cranio umano” – come direbbe Pirandello –, momento di sottrazione. La performance creata è quindi ricettacolo di contraddizione, sorprende con la sua natura ambigua e innesca effetti stranianti.
Condizioni analoghe tornano anche nell’ultimo spettacolo di Öhrn, Phobia, alla sua prima italiana in questa Biennale Teatro. I personaggi qui indossano maschere enfatiche, che – con i loro occhi enormi ed esorbitanti, una bocca larga e inespressiva – gridano di essere tali. Richiamano quelle dell’antico teatro greco, ma sono reinventate in chiave cartoon. Come dice lo studioso Valentino Baldi, “obiettivo della rappresentazione caricaturale è quella di cogliere le caratteristiche essenziali del soggetto ripreso e di fissarle in assoluto”. Si tratta di un artificio volto a ingigantire e amplificare per disvelare, mostrare cosa c’è sotto. I protagonisti di Phobia sono in effetti personaggi-fantoccio che esibiscono la loro artificialità e che in scena incarnano i membri “legittimi” di una società contemporanea impostata sul modello tradizionale. Sono padri e madri, esponenti del mondo degli affari e dell’arte; contro di loro si scaglia un secondo gruppo di personaggi che porta un passamontagna color rosa acceso – sono i “Fag Fighters”, un’unità di guerriglia urbana gay che commette atti di violenza contro gli “integrati”. I Fag Fighters, inventati nel 2007 dal fotografo polacco Karol Radziszewski per una sua opera video, tornano in questo spettacolo, di cui Radziszewski è creatore insieme a Öhrn, con la loro carica ironica e dissacrante, esasperando gli stereotipi della destra conservatrice e provando a svuotarne le istanze.