Geografie distanti insegnano come le “nostre” verità assumono connotazioni contrastanti, invitandol’essere umano a una negoziazione. Ciò che in Occidente rappresenta purezza e candore, in India assume significati opposti: il bianco, infatti, lì simboleggia il lutto e il distacco; è l’unico colore indossato dalle vedove per dire addio ai propri cari. Dal momento che il bianco riflette tutti i colori e respinge la luce, rappresenta l'isolamento e la rinuncia ai piaceri della vita durante il lutto. È un tonoambiguo, nel quale l’individuo si eclissa, attratto dalla sua pericolosa brillantezza, accecante, distorta.
Al contrario, il nero altrove si fa simbolo di prosperità, una guida attraverso le sfide della vita, verso una crescita personale autentica. L'oscurità diviene un viaggio di raffinata introspezione.
L’invito è a riflettere su come le verità varino attraverso le culture: il bianco, ingannevole, alla continua ricerca della perfezione; il nero, imprigionato nella gabbia di malelingue, si fa manifesto di coraggio, diventa luce per l’essere umano, in un sentiero tortuoso nel quale affrontare ombre e demoni, in attesa di una rivalsa. I ruoli si invertono, le certezze si sporcano di controversie.
In un mondo 2.0 in cui la società si sviluppa attraverso bolle predisposte da terzi, discostarsi da una visione arcaica per visualizzare altri punti di vista è una strategia verso una comprensione più profonda e autentica della realtà che ci circonda.
Eleonora Melis
“E, tra una pallottola e l'altra, Eddie e Roland vanno al creatore…”, così recitava la sinossi della prima edizione di un romanzo intitolato La Canzone di Susannah. Qui, come in Phobia, i due protagonisti si recano letteralmente dal loro creatore: Stephen King nel primo caso, Markus Öhrn nel secondo.
A voler essere certosini, i due attivisti LGBTQ+ dai passamontagna fucsia al centro della messinscena di Öhrn sono creati dall'artista e documentarista polacco Karol Radziszewski, co-ideatore dello spettacolo esagerato, strabordante, splatter, pulp, ironico, irriverente, che ha sconquassato l'Arsenale di Venezia attraverso una retorica iperbolica della violenza rigorosamente e drammaticamente finta, anzi fintissima. I performer svuotano bottiglie di “sangue” o immergono falli di gomma nella nocciolata, ma il pubblico è turbato perché la finzione dichiarata è ugualmente dolorosa – a meno che non si sia diventati insensibili alla brutalità.
Phobia è suddiviso in tre episodi, aderendo agli stilemi di Öhrn, solito raccontare trilogie; mentre il sipario è ancora chiuso, il regista appare sul proscenio con i suoi capelli biondo platino; indossa un paio di pantaloni a fiori, calzini arancioni, la maglia di una band metal e un gilet in jeans. Dà qualche informazione sulla struttura dello spettacolo, ringrazia e presenta i due musicisti in scena, dopodiché sparisce dietro le quinte.
Episodio 1: La bandiera
Una famiglia modello, composta da madre, padre e figlia biondissima, espone una bandiera arcobaleno sul balcone, dove tutti possano vederla: è la vittima perfetta dei fag fighters che si muovono di casa in casa per interrogare i cittadini polacchi sulla storia del loro Paese, sui loro artisti, compositori, re, danzatori, ciascuno icona di uno spettro differente dell’omosessualità e del non-binarismo. I due carnefici irrompono come i protagonisti del film Funny Games e spesso si rivolgono direttamente al pubblico, rendendolo complice e succube. La parola quiz viene ripetuta innumerevoli volte, mentre padre e madre falliscono nel rispondere e vengono picchiati, torturati e infine, seviziati.
Episodio 2: I bei fusti
Nell’atelier di moda di un brand inclusivo, “attento ai gusti di tutt*”, troneggia l’immagine di due bei fusti a petto nudo che indossano jeans a vita bassissima e si stagliano contro il collage delle bandiere simbolo dell’orgoglio omossessuale, transgender, asessuale, intersessuale, e così via, in una rappresentazione stereotipica che di più non si può. Gli aguzzini aspettano pazienti il boss, per un nuovo, fallimentare, esame di storia. Impugnano delle mazze da golf, salvo ricordarsi di avere a disposizione uno strumento migliore: il dildo rotante incastonato su un trapano elettrico.
Episodio 3: Bye bye Poland
“Pronto mamma. Sì, mamma. In Polonia per uno spettacolo, sì, sempre sangue e merda. No mamma, non è colpa tua...”. Appare in una stanza d’albergo l’ultimo sacrificio, con il volto celato dalle maschere cartoonesche che indossano tutti i personaggi dello spettacolo; porta un paio di pantaloni a fiori, calzini arancioni, la maglia di una band metal e un gilet di jeans. Seduto, legge un copione il cui enorme titolo recita OMOPHOBIA. Markus Öhrn. Tira fuori il modellino di un teatrino e, giocando con bamboline di plastica, riproduce gli abusi della sua messinscena, prima di sentire bussare alla porta: “Ah! Pussy riot!”. L’esclamazione costerà cara al regista, violentato e smembrato prima ancora di essere interrogato, in un’apoteosi del sanguinolento e del grottesco, mentre violoncellista e pianistasuonano gli Abba e si gioca a curling con pezzi di corpo, in un burlarsi della cultura svedese.
Il trittico esplora istinti e sentimenti repressi, impressionando e agitando il pubblico, in un’ambiguità che lo spettatore ha il compito di colmare con le proprie idee, domande, dubbi. Per fare ciò, Öhrn si lascia ispirare dalla scena Black Metal, che è sia fortemente teatrale che fintamente violenta e satanista; lo spettacolo mantiene una doppiezza di messaggio tale da renderlo assurdo, poetico, turbante. Phobia rinnega le etichette e lavora nella fluidità, per non essere afferrato e diventare così pericoloso: e se l'arte deve essere pericolosa, questo spettacolo lo è senz’altro.
L’autore-attore britannico Tim Crouch porta in questi giorni alla Biennale Teatro il suo nuovo spettacolo Truth's a Dog Must to Kennel, una pièce che si muove tra due spazi: la Sala d’Armi dell’Arsenale di Venezia e un altro, ipotetico, dove sta avvenendo una replica del Re Lear di Shakespeare. Il pubblico non vede questo secondo luogo, ma è lo stesso Crouch ad osservarlo attraverso un visore, e a raccontarlo. Quel che viene richiesto agli spettatori è, quindi, un esercizio di immaginazione collettiva.
Non è un'incursione nuova quella del drammaturgo britannico nel mondo shakespeariano: poco più di una decina d’anni fa, nel 2013, sempre alla Biennale Teatro, venivano presentati quattro spettacoli dalla pentalogia I, Shakespeare (tre compiuti più uno studio). Si trattava di una serie di monologhi in cui, a raccontare la storia principale delle opere del Bardo, erano i personaggi secondari. La messa in scena era curata da Fabrizio Arcuri e dalla sua Accademia degli Artefatti, legati a Crouch da un sodalizio pluriennale: difatti, furono tra i primi a presentare in Italia i suoi testi, per esempio My Arm e An Oak Tree, nel contesto del progetto AB-USO (2006-07). Erano gli anni in cui il regista romano – anch’egli in programma in questa Biennale – si andava affacciando col suo gruppo alla nuova drammaturgia inglese, introducendo autori e testi ancora inediti nel nostro Paese.
Lo stile di Crouch è tipicamente postmoderno: segnato da ironia, commistione tra alto e basso, forme di racconto frammentarie; unito, nelle messinscene, all’approccio degli Artefatti, creava qualcosa che esulava dalla semplice decostruzione testuale, esorbitando verso la messa in questione dell’intero meccanismo teatrale. Il lavoro della compagnia si è distinto negli anni, difatti, per un progressivo scoperchiamento dei dispositivi scenici, nonché per lo studio sull’identità in relazione al lavoro attoriale, in una costante forma di riflessione sull’atto di fare teatro e sulle possibilità della rappresentazione.
Nella citato ciclo shakespeariano, per esempio, le narrazioni tratte dal Macbeth o dal Sogno di una notte di mezza estate venivano mostrate da una prospettiva laterale, in modo spesso frammentato: dal delirio iracondo del fantasma di Banquo, tornato per fare i conti con la profezia iniziale; al racconto strascicato di Fiordipisello, una delle magiche figure del mondo delle fate, che tenta di ricostruire le vicende della sua storia scavando tra i ricordi a fatica, reduce da una serata alcolica.
Il decentramento della narrazione poneva un importante interrogativo: se Macbeth o Titania non sono in scena, allora dove sono? Si trovano tra il pubblico, che è chiamato ad assumerne il ruolo. Quello del coinvolgimento dello spettatore è forse uno dei nodi cardine dell’opera di Crouch. Già con il suo esordio, My Arm, si interrogava su come combattere l’idea di una fruizione passiva: lo spettacolo vedeva in scena un trentenne che, nel tentativo di superare una forte crisi d’identità, iniziava a mettersi alla prova fisicamente, fino ad arrivare a decidere di tenere il braccio alzato sopra la testa senza più muoverlo; durante lo spettacolo, l’attore-autore interagiva con gli spettatori, prendeva in prestito i loro oggetti tramutandoli in qualcos’altro – un pacchetto di sigarette, per esempio, diventava il padre del protagonista – e rendendoli, così, in un certo senso partecipi della creazione della finzione.
La necessità, sentita da Crouch, di un teatro che sia in grado di coinvolgere nasce anche in reazione alla direzione che la ricerca artistica stava prendendo in quel momento: ovvero quella di un lavoro visivo, d’immagine, che a parere dell’autore rischiava di allontanare lo spettatore. L’opera del drammaturgo, così, può essere vista come un tentativo di rimettere al centro la comunicazione col pubblico, rendendolo co-creatore dell’opera. La sua produzione artistica non è mai stata un gioco di decostruzione fine a se stesso, quanto più un ripensamento delle dinamiche teatrali che rendano quell’IO qualcosa di fluido, di flessibile e liminale. Così, il pronome della prima persona singolare viene rimbalzato tra autore, attore, personaggio e approda tra gli spettatori, per restituire al teatro la sua dimensione di incontro, la sua vitalità.
Ogni anno, quando si delinea la fine del workshop che teniamo assieme alla storica del teatro Roberta Ferraresi, torna la domanda: ma in fondo perché fare il critico teatrale, ci diciamo guardandoci un po’ confusi e sicuramente stanchi. A dare una parziale risposta sono i laboratoristi, anzi le laboratoriste, dal momento che in questo 2024 sono tutte donne. Il loro entusiasmo, la loro serietà, la voglia di capire e di scrivere, la determinazione nel confrontarsi con quel che accade in scena: sono motivate, trovano un senso profondo nella scrittura critica. È un paradosso, in questi tempi di pensiero semplificato, eppure è così. In queste due settimane, le giovani critiche hanno maneggiato la forma della recensione, della presentazione, dell’intervista. Hanno discusso tra loro, e con noi curatori, di ogni spettacolo, hanno dato fondo alle energie dormendo e mangiando poco, pur di essere in platea, dopo aver consegnato i pezzi della giornata. Hanno fatto attività di desk, correzione bozze, redazione. E quotidianamente, sul sito della Biennale, grazie alla collaborazione con l’Ufficio Attività Editoriali e Web, sono usciti quattro o cinque articoli: ne emerge un racconto del Festival che è appassionato e lucido al tempo stesso. Ci sono margini di crescita? Sicuramente: sono superpreparate, hanno già cv di livello, per quanto alcune siano studentesse o laureate da poco, possono solo far migliorare la prassi critica. Saranno il futuro del teatro? Difficile rispondere, anche perché quella del critico è sempre meno una professione (retribuita) e sempre di più una sorta di volontariato. Eppure ci sono: occhi e orecchie aperte; mani che corrono veloci sulle tastiere; domande scomode e intuizioni geniali; risate e indignazioni. A guardare indietro, poi, dopo tutti questi anni in cui abbiamo avuto il privilegio di condurre il laboratorio, ci rendiamo conto che tanti dei nuovi critici (ormai firme riconosciute) sono passati da qui, da questa Venezia-College, da questa redazione che si anima una volta all’anno, per quindici giorni, aprendosi a un giornalismo nuovo e antico. Magari, se si farà ancora questa esperienza, sarebbe bello prevedere un minimo di sostegno in più per chi si iscrive: anche solo affittare un posto letto, in laguna, costa tantissimo, e sarebbe un peccato se il College fosse appannaggio solo di chi se lo può permettere. Resta allora quella domanda. Perché? Per chi? Fare critica significa tessere reti, tenere aperti i dialoghi, confrontarsi con l’Altro. E mentre crescono i revanscismi, si innalzano i muri, il teatro ha da tempo abbattuto la simbolica quarta parete, per far incontrare di più e meglio scena e platea. E noi – critici, spettatori professionisti o meno – cerchiamo di muoverci tra l’una e l’altra, proviamo a guardare, capire, discutere, studiare (anche sorridere a volte!). Dicono gli artisti di Back to Back Theatre, insigniti del Leone d’Oro alla carriera che, attraverso il teatro, si può cambiare il modo in cui abitualmente vediamo le cose. A volte capita anche alla critica.