Il Festival
10 giorni - dal 21 al 30 giugno – con 29 spettacoli di 22 coreografi e compagnie da tutto il mondo per il 13. Festival Internazionale di Danza Contemporanea diretto da Marie Chouinard e organizzato dalla Biennale di Venezia, presieduta da Paolo Baratta.
5 le prime assolute, 9 quelle nazionali e 8 gli interventi inediti creati per il teatro all’aperto nel cuore della città; numerosi incontri con gli artisti; un ciclo di film: tutto negli spazi dell’Arsenale –Teatro alle Tese, Teatro Piccolo Arsenale, Sale d’Armi, Giardino Marceglia – ma anche al Teatro Malibran e in Via Garibaldi.
Sono i Leoni, artisti che condividono strategie compositive originali e un approccio multidisciplinare alla danza, alfieri di un’idea estesa e “permeabile” di questa disciplina, a dare il via il 21 giugno al Festival e a marcarne la fisionomia.
Alessandro Sciarroni, Leone d’Oro alla carriera, artista di formazione “mista” tra arte, teatro e coreografia è a Venezia con Your Girl, spettacolo-rivelazione, e Augusto, dove la pratica fisica e vocale attraverso la quale viene concesso agli interpreti di esprimersi è esclusivamente quella della risata a oltranza. Anche Steven Michel – con studi di mimo, danza, percussioni – e Théo Mercier – formato alle arti visive e alla regia – Leoni d’Argento, si incontrano nell’intersezione tra arte e coreografia, frutto di processi di costruzione simili ma con strumenti diversi: da una parte il corpo e dall’altra gli oggetti. Come in Affordable Solution for Better Living, assolo che disseziona con humour la standardizzazione dei nostri stili di vita che trovano un modello esemplare nei mobili Ikea.
Così Piece for Person and Ghetto Blaster della scrittrice, regista, performer, designer australiana Nicola Gunn e Un Poyo Rojo dello strepitoso duo argentino Nicolás Poggi e Luciano Rosso coesistono all’interno del Festival pur viaggiando su binari differenti, persino opposti. Pluripremiato in Australia, il primo è una “digressione filosofica in movimento”, tra gag, aneddoti, interrogativi e affondi sul più essenziale e ambiguo degli enigmi morali - la differenza tra giusto e sbagliato - innescato da un “incidente” tra un uomo una donna e un’anatra; mentre il secondo, che ha girato il mondo e al Festival Fringe di Edimburgo è rimasto un mese intero, è puro “physical theatre”, un’azione drammatica con due uomini e una radio che si fronteggiano, si sfidano, si combattono e si seducono a colpi di humour in un mix esilarante di danza, sport ed erotismo.
La relazione artista – spettatore, un tema oggi portante nella danza contemporanea, è affrontato espressamente da alcuni spettacoli invitati al Festival scardinando le nostre abitudini percettive. È il caso di Blink della brasiliana Michelle Moura (anche interprete con Clara Saito), definito “un pas de deux metafisico”, una coreografia ipnotica che ha per strumento compositivo l’atto riflesso dello sbatter di ciglia e la sua interruzione che provoca impercettibili mutamenti psico-fisici e infinite trasformazioni. O come Habiter, dove la scrittura visiva della canadese Katia-Marie Germain, vincitrice del Prix de la Danse de Montréal nella sezione “scoperte”, in un gioco illusionistico compone un dipinto che poco alla volta si svela davanti ai nostri occhi come una successione di fermoimmagine: in scena due donne, un tavolino apparecchiato per la colazione e un un’unica fonte di luce utilizzata come un pittore fa col chiaroscuro. Anche il lavoro di Simona Bertozzi, a lungo con Virgilio Sieni prima di intraprendere una strada personale, invitata al Festival con Ilinx – Don’t stop the Dance, mira a rendere visibile l’invisibile lavorando su articolazioni, muscoli, organi, cellule. Il nuovo lavoro, che amplia e ridisegna lo spettacolo del 2008, propone “un’inedita riflessione sulla solitudine del performer e del suo universo ludico” ispirandosi a una delle categorie ludiche di Roger Caillois.
E precisamente sulla “relational performance practice” si basa la ricerca del coreografo australiano Luke George, che con Daniel Kok firma Bunny, spettacolo felicemente trasgressivo dove in un gioco di corde e nodi – ispirati alla tradizione dello shibari come a quella marinara – si scardinano le convenzioni sociali e teatrali interrogandosi sulla consensualità, la fiducia, le aspettative, la complicità tra artisti e spettatori. Un tema affrontato anche da Forecasting di Giuseppe Chico e Barbara Matijević, che è anche in scena insieme a un laptop alla ricerca di nuove forme di narrazione che esplorino l’incidenza del web sul gesto del performer e sui nostri sensi. La sfera del virtuale trasforma infatti la premessa che è alla base di ogni spettacolo: l’attore davanti al pubblico.
Apre altri orizzonti al movimento Every Body Electric dell’austriaca Doris Uhlich (laureata in Pedagogia della danza), che impegna artisti disabili a liberare tutte le loro potenzialità fisiche ed espressive, con sedie a rotelle, stampelle e protesi che diventano strumento coreografico. “Ogni essere umano è unico e speciale” ci ricorda la Uhlich che vede nella danza un “nutrimento per il corpo” e nel movimento “una specie di combustibile interno” così che “l’energia di un movimento è più importante della sua forma”.
Nel rapporto tra suono e silenzio, movimento e immobilità si dispiega il delicato intreccio tra musica e danza di Tide, ispirato al moto delle maree. Protagonisti sono la danzatrice e coreografa islandese, per la prima volta in Italia, Bára Sigfúsdóttir insieme al compositore e trombettista norvegese Eivind Lønning, fra i nomi di maggior spicco nel panorama musicale nordeuropeo.
La musica ha un ruolo rilevante negli spettacoli di tre fra i massimi protagonisti della scena contemporanea: Sasha Wlatz, Daniel Léveillé, William Forsythe.
Agli Improvvisi di Schubert, una sorta di diario intimo affidato alla voce sola del pianoforte, guarda lo spettacolo Impromptus del 2004, quasi un classico di Sasha Waltz, autrice dal personalissimo immaginario coreografico, capace, con la sua danza, di illuminare la struttura classica della musica vedendola sotto una nuova luce.
In Quatuor Tristesse di Daniel Léveillé gli accenti lirici delle partiture barocche contrastano con l’assenza di emozione dei danzatori che il coreografo canadese scolpisce in gruppi plastici dove la nudità austera, l’economia del movimento, la sua ripetizione ossessiva sono contenuto e forma della ricerca di una purezza originaria.
È William Forsythe, artista in continuo rinnovamento, a regalare al pubblico A Quite Evening of Dance nell’arco teso tra le geometrie del balletto accademico e le forme dell’hip hop, tra nuove creazione e altre preesistenti, interpreti 7 fra i suoi più fidati collaboratori con l’innesto di Rauf “Rubberlegz” Yasit, performer di break dance.
24 anni, da Napoli, europea di formazione, Maria Chiara De Nobili proviene dal vivaio di giovani coreografi di Biennale College, l’iniziativa con cui la Biennale di Venezia promuove nuovi talenti offrendo loro di operare a contatto di maestri affermati per la messa a punto di nuove creazioni. Il debutto sul palcoscenico del Festival 2018 trova ora conferma con un lavoro a serata intera che la Biennale le ha commissionato per il 2019. Così nasce Wrap, in cui la giovane autrice persegue la sua ricerca attraverso la forma dell’assolo e del duetto, immaginando una coreografia per immagini in sequenza, come le tessere di un mosaico o i pezzi di un puzzle.