Sono i luoghi dell’assenza quelli a essere stati invocati, incandescenti e primi: la latebra di una notte senza immagini (niger) e una luce apicale che soffoca, riassorbendola, ogni ombra (albus).
Agli inizi della 52a edizione della Biennale Teatro, ci lasciamo cadere all’interno del solco tracciato da Stefano Ricci e Gianni Forte al loro quarto mandato: Niger et Albus, questo è il suo tema, schiude infatti tra le lettere un luogo caldo su cui già possiamo tentare alcune piccole considerazioni pre-testuali.
A ben vedere, queste condizioni vuote dell’apparire, questi cortocircuiti ciechi, contengono la promessa di un’immagine: se è vero, infatti, che un luogo non si dà finché non opera i propri esili, nero e bianco – come un filo di trama e uno di ordito, nella congiunzione che li annoda – dichiarano che possono figurare solo a patto di essere intrecciati. La chiamata, dunque, è dissacrare questi colori puri, districando per essi spazi minori, enunciati, immagini che si prendano la briga di corromperli.
Come riportato in esergo all’efficace e lungimirante catalogo del festival, appellandosi ai mondi alchemici delle culture popolari, e consegnate le vesti degli arcani maggiori ai registi, i direttori invocano nel solco anche gli abissi plurimi dei tarocchi per rivendicare posizioni e nuovi ruoli. La soglia, dunque, è augurale e le figure cariche di futuro.
E noi pubblico, come scrive tra i Chiari di Bosco María Zambrano, salteremo “di aula in aula, di chiaro in chiaro”, in un teatro di ri-forma, tra le pagine del presente polarizzato, tra la luce e il buio, nella cuciture di maghi e di appesi che spingono verso un aldilà a tentare di risvegliare il domani.
Giulia Pellin Mattiocco
Nato nel cuore della pandemia di COVID-19, Elephants in Rooms racconta un presente di solitudini irrisolte, inaugurando la Biennale Teatro 2024 al Padiglione 30 di Forte Marghera: all’interno dell’avamposto militare ottocentesco il collettivo Gob Squad – vincitore del Leone d’Argento di quest’anno – costruisce un’installazione di quattordici schermi che riproducono squarci di vita di singole individualità chiuse in una stanza, tra una videocamera che le riprende e la finestra che ne limita le possibilità di movimento. Il moto incessante del mare proiettato sullo sfondo accompagna i visitatori che si spostano liberamente tra le insenature del fortilizio napoleonico; al contempo, il medium del monitor offre ai soggetti inquadrati una connessione assente con l’esterno e per gli astanti si impone come modalità di fruizione obbligata.
La storia di un passato recente viene a galla nell’immediatezza dei dispositivi audiovisivi che, come una gabbia, vincolano il racconto di esperienze soggettive, scandite dal monito inespresso di un «keep calm and carry on» – come sottolinea Simon Will, membro del gruppo teatrale, all’inaugurazione della mostra. Non c’è spazio per esplodere, un tacito regolamento della cultura anglosassone prescrive che le emozioni siano esternate a piccole dosi, passate al vaglio da un rigido controllo razionale. E se la ferocia delle circostanze politiche e umane grida alla rivoluzione, a una ribellione trasgressiva, quale tranquillante viene concesso? Una tazza di tè, che i performer sorbiscono in video con eleganza mentre si addobbano il capo di cuscini e scotch dall’avviso «FRAGILE» a caratteri cubitali. La stessa esperienza degustativa ed esistenziale è proposta ai visitatori che, stringendo tra le mani un bicchiere di infusi fumanti, ricompongono un attraversamento personale del periodo pandemico, secondo proprie inclinazioni e stimoli esterni: chi richiamato da un urlo disperato, chi da una finestra così simile a quella di casa, chi incantato da Simon Will che – come un moderno Dorian Gray – osserva trasognato la sua immagine allo specchio mentre tenta di catturarne una forma o un fotogramma evanescente.
Pochi elementi sul palco del Teatro Piccolo Arsenale: una sedia, una vasca, un armadio, tre specchi, dei barattoli, alcuni vuoti altri pieni d’acqua, un paio di scarpe con calze, sullo sfondo di un muro fatiscente. E una donna in scena intenta a giocare – o combattere – con una corda per saltare. In sottofondo, si alternano sussurri di pianoforte e carillon, e lei, sola, completamente sola, ripete una piccola routine fatta di gesti lenti e precisi, calibrati; c’è qualcosa di maniacale nella reiterazione dei suoi movimenti, nella distensione dei muscoli di gambe e braccia. Poi cala il buio, un rettangolo di luce circonda la sua figura, sale un fragore distante, lontano. La ragazza inizia a saltare la corda rapidamente, in una danza infernale, per poi correre via. Prende il suo posto una donna identica a lei, seppur vestita in modo diverso, inizia a specchiarsi, a travasare l’acqua, quasi come un alchimista. Tornerà spesso l’acqua nel corso dello spettacolo: tornerà come simbolo della dimensione emotiva, come foriera per la metamorfosi, come segno dell’instabilità. Crisalidi di Ciro Gallorano, vincitore del bando Biennale College Teatro - Regia Under 35 dello scorso anno, è uno studio psicologico e le crisalidi del titolo, da studiare e osservare, sono due donne (Sara Bonci e Andreyna de la Soledad), sofferenti e in lotta con se stesse, bloccate nel bozzolo e incapaci di uscirne.
Un implicito senso di minaccia accompagna l'alternarsi in scena delle figure, mentre si vestono e si spogliano, si allontanano e si rincontrano. Ecco che la scenografia (firmata da Alberto Favretto) viene sconvolta: si apre e sullo sfondo rimane un muro con tracce di sangue, e cambia ancora, seguendo i loro gesti. Le performer modificano i luoghi che abitano, attraverso il movimento, innestando il loro corpo in essi, tormentandosi: sbucano mani e piedi dalle pareti, non c’è divisione tra spazio esterno e interiorità.
Abbiamo mai un nemico peggiore di noi stesse? Queste figure diventano allora intercambiabili: se alla loro entrata in scena rimanevano degli elementi a distinguerle (i capelli scompigliati di una e la treccia composta dell’altra; i vestiti diversi; i corpi prima spogliati poi coperti), a un certo punto rimangono solo rabbia e sofferenza ad abitare questi luoghi.
Il tormento emotivo prende forma attraverso gli oggetti, legati a una simbologia spirituale e religiosa: le coppe che si riempiono e si svuotano a ricordare il seme dei tarocchi; la benda con cui si copre gli occhi la donna, come nella simbologia del due di spade; i rami che si accumulano, portati in spalla, trascinati per il palco, che diventano croce della memoria. Perché questo malessere affonda le sue radici proprio nei ricordi, che sono rievocati anche nelle risa lontane e nelle urla dei bambini, colonna sonora dei movimenti convulsi. Alla fine, qualcuno deve sempre morire, e se non è la candela che si spegne, o affogare il viso nella vasca da bagno; a sancire il finale è il ritorno a una teca di vetro, come quelle in cui si è soliti conservare proprio le crisalidi prima che si schiudano. Le due esili figure vi si arrampicano, una si rannicchia all’interno e l’altra vi si sdraia sopra. Rimangono così congelate, le loro mani congiunte attraverso la barriera, come a sfiorarsi, piovono su di loro calcinacci, frammenti della psiche, rimangono tese in un abbraccio mai compiuto: è il momento della morte, a permettere alla donna di ricomporsi.