Non siamo più nel Kansas, Dorothy.
Tutto sembra suggerire che non ci sia via di ritorno. Eppure, Dorothy scruta l’invisibile: per quanto i cittadini di Oz – mago del celebre film di Victor Fleming (1939) – possano essere inconsueti, le vicende e gli animi sembrano indistinguibili da quelli delle persone ordinarie a cui era abituata. A sottolineare tale ambiguità è la dominanza del verde – quello della Città Smeraldo, ma anche della strega dell’Est. Verde, come un sentimento dove le polarità si ibridano: è il fantastico e il sinistro, l’armonia ambientalista e il ronzio innaturale delle luci al neon, la pace dei pascoli e le città post-umane, riconquistate dalla vegetazione; è vita e morte, il lucore di un fuoco fatuo che nei cimiteri brilla e ristagna. Del resto, il verde assoluto era per Kandinsky il colore più calmo, per quanto insidioso nella sua passività: a rimanere incantati si rischia la paralisi, come il regno della Bella Addormentata indotto dalle fate a una letargia verdastra, bloccato nel tempo.
Verrebbe allora da chiedersi se, durante questa Biennale Teatro 2023 Emerald, ci mobiliteremo verso un mondo radicalmente diverso, o se, come Dorothy, dovremo negoziare con la nostalgia nel nostro sguardo. Più probabile che, fermandoci a contemplare, anche noi ci lasceremo ipnotizzare dal verde assoluto: adotteremo una nuova lucidità per reimparare, un giorno, ad andare avanti. E iniziare a interrogarci su cosa cambierebbe, se cessassimo di cercare il nostro Kansas: 1) nulla 2) noi stessi 3) qualcosa che ancora non possiamo comprendere.
Segnate la casella che desiderate.
Leonardo Ravioli
Per Armando Punzo, Leone d’Oro della Biennale Teatro 2023, è «necessità che crea altra realtà dalla realtà che non asseconda».
Per FC Bergman, Leone d’Argento, è «speranza, nuovi inizi».
Per Bashar Murkus, affiancato dal collettivo Khashabi Ensemble, è «la prima bellezza che ha conosciuto, coltivata dalle ruvide mani della nonna, e la prima che ha perduto, crescendo».
Questo è il verde che si manifesta vivo nelle parole di alcuni degli artisti presenti al 51. Festival Internazionale del Teatro e che da queste si dirama, animando Venezia e i palchi ospitanti gli spettacoli dell’edizione Emerald; inducendo la città delle maschere a smascherare, a spogliarsi di ogni orpello per innescare un cambiamento, una rigenerazione.
Emerald è il colore-simbolo del quale la Biennale Teatro si fa epicentro di diffusione, vibrante nel suo acceso rigoglio in ogni performance; è la dimensione verso la quale il Teatro trasporta inevitabilmente, strappando l’osservatore al reale come il tornado fa con Dorothy, e introduce a un mondo nuovo, dove rinascere, assumendo nuova consapevolezza di sé, dell’altro, del tutto.
Il 51. Festival Internazionale del Teatro si pone dunque l’obiettivo di riconsegnare allo spettatore uno sguardo critico: è fondamentale che ciò avvenga, in una società che issa muraglie per difendersi da un mondo con il quale, al contrario, dovrebbe ricongiungersi.
17 giorni essenziali per intraprendere un viaggio spirituale: così definiscono l’esperienza del vivere il teatro i Direttori Gianni Forte e Stefano Ricci nel loro intervento dedicato all’edizione 2023, dove approfondiscono anche il significato del colore scelto e della simbologia che questo assume in connessione con la Città di Emerald, nel Regno di Oz.
Diveniamo quindi tutti delle Dorothy, con grandi sogni, ma altrettanti dubbi: costante la nostra ricerca di risposte, insaziabile la fame di soluzioni impossibili.
Quando scopriamo che non c’è un mago, che siamo l’agente scatenante il cambiamento, forse noi il cambiamento stesso, comprendiamo l’importanza dell’agire, dell’imparare a vivere.
I “Leoni”, i giovani della Biennale College Teatro e tanti altri artisti contemporanei, scavano nella terra del presente a mani nude, lo fanno con il corpo, con la voce, con il suono e la luce. Tramutano esperienze individuali in sentimento collettivo, inserendo semi ricchi di consapevolezza morale nel verde spento di un giardino spoglio, con la speranza che il Teatro divenga una folata di vento magico tra i fitti rami di una società disconnessa dalla sua natura più intima.
Ogni spettatore è invitato a rispondere al richiamo del bagliore di Emerald, a seguirne la scia, a intraprendere un cammino che oltrepassa il superfluo, per nutrire l’essenziale.
Una chiamata volta a tutti e ciascuno, che sprona ad osservare, confrontarsi, scoprire.
Tra Arsenale e spazi lagunari si cela la magia del Festival, impossibile non cedere al suo ostinato appello.
Immersa nell’atmosfera rarefatta di un luogo desolato e incolore, una figura dalla postura fanciullesca si aggira con sguardo curioso e passo leggero. Note provenienti da mondi incantati arrivano a riempire un tempo che sembrava sospeso, mentre lo spazio vuoto inizia a popolarsi di elementi semplici, tinte primarie e personaggi provenienti da un altrove sconosciuto. Tra riconoscimento e sorpresa, gli occhi si accendono e la bocca sorride di fronte a un mondo-zero, puro nella sua distesa di sabbia bianca: è un universo tutto da re-inventare stando al gioco della fantasia.
Il 51. Festival Internazionale del Teatro nato sotto il segno della trasformazione e della rinascita non poteva che aprirsi con lo slancio visionario di Naturae, spettacolo site-specific del Leone d’Oro Armando Punzo e della sua Compagnia della Fortezza, composta da attori-detenuti della Casa di Reclusione di Volterra. Regista fra i pionieri delle esperienze di teatro in carcere, Punzo, negli oltre trent’anni di attività, ha reso l’istituto penitenziario un polo teatrale e fucina per una ricerca artistica volta a indagare le potenzialità immaginifiche del teatro. A partire dalla condizione del carcere, l’arte scenica e la fantasia sono intese dall’artista come possibilità di liberazione dell’anima umana dalle proprie gabbie – fisiche e interiori – e come strumenti per costruire mondi alternativi.
Adattato per lo spazio del Teatro delle Tese, Naturae è infatti un’immersione in un presente decostruito e azzerato, in cui ritrovare una distensione temporale e una verginità dello sguardo per ri-pensare la vita e l’uomo sotto rinnovate forme. Per farlo, il protagonista-fanciullo recupera gli elementi simbolici e archetipici della ritualità, dalla frutta al boccale di vino, marcando il bisogno umano di riconnettersi al metafisico, al sacro, alla fiducia verso l’astratto e l’ignoto. Una voce, calda e gentile, accompagna questo rinnovato incontro con afflato poetico, mentre la musica restituisce il ritmo al tempo. Ed ecco allora che quelle strutture simili a celle che avevano iniziato a popolare con pesantezza l’ambiente, si fanno sempre più leggere, fino a fluttuare, volteggiare, sollevarsi, mutando le logiche della gravità. Gli spazi vuoti di quei telai non sono più delle sbarre: diventano possibilità di evasione, dimensioni da esplorare, scaffali di una libreria ricolma di storie, tele da tingere di colori primari e colmare di forme semplici e ordinate. Una danza perpetua, circolare e incessante, accompagnata da una musica sempre più concitata, rompe completamente le maglie costrittive della prigione del reale e, mescolandosi con l’onirico, rende manifesta la possibilità del cambiamento e della trasformazione. Lo spazio da desolato si fa improvvisamente vivo, ricco di oggetti simbolici – dalle sfere, agli elmi di antichi eroi, fino a porte impossibili da aprire – e si anima di figure dai volti colorati, abiti rossi e vestiari orientaleggianti di giganti e di minuscole creature. È una festa orchestrata dal protagonista, che si relaziona con le sue proiezioni come un allegro burattinaio. È “Lui”, l’alter ego di Punzo, tornato “Bambino”, due personaggi-simbolo già incontrati in precedenti lavori della Fortezza: Naturae è infatti approdo dell’omonimo percorso dedicato «alla ricerca dell’ordine e della bellezza nella natura umana», che negli ultimi quattro anni ha preso forma in una sorta di saga declinata in diversi allestimenti-capitoli. L’origine del lavoro risale tuttavia a otto anni fa, quando Punzo si scontra con l’idea shakesperiana – e occidentale – secondo cui l’uomo è destinato a ripetersi sempre uguale a se stesso. Da qui, il regista decide di operare una contro-scrittura, lasciandosi influenzare dal realismo magico di Borges.
Naturae è l’ultimo capitolo di una ricerca inesauribile, un auspicio, o forse un invito, a scardinare il disincanto nei confronti del mondo e della possibilità del cambiamento, per «ricominciare a sognare un nuovo uomo [da] imporre alla realtà». La chiave proposta per affermare l’homo felix e innescare la spinta alla trasformazione sembra quella di decostruire per ri-creare, tornando a uno sguardo innocente e puro ancora in grado di meravigliarsi, gioire e dare fiducia alla fantasia.
Il 51. Festival Internazionale del Teatro della Biennale di Venezia si apre con un evento straordinario: è Naturae della Compagnia della Fortezza diretta da Armando Punzo, Leone d’Oro alla carriera di questa edizione. A differenza di come spesso accade nelle grandi rassegne – dove i vari spettacoli si collocano senza soluzioni di continuità, ben che vada formando ogni tanto dei piccoli arcipelaghi – una simile ouverture si può considerare una scelta curatoriale, anzi drammaturgica, tanto forte da da aver la potenza di un imprinting capace di cambiare segno e senso a tutto il Festival. Come il tornado di Dorothy all’inizio de Il mago di Oz – se vogliamo evocare il concept di questa Biennale Teatro – questo spettacolo cambia le cose, ci sposta da un’altra parte.
Naturae è un lavoro estremamente materico che opera programmaticamente sulla sostanza del teatro. Basti pensare ai colori di cui si tinge e, di conseguenza, ripensare al possibile raccordo con la scelta dei Direttori Stefano Ricci e Gianni Forte – anche questa certo non usuale – di “dipingere” di un tono cromatico diverso ogni edizione della “loro” Biennale Teatro. Fra lanci di polveri variopinte, corpi colorati, tinte forti, segni concreti o ideali che si fanno enigmi – ma anche situazioni che vengono composte dal vivo sotto gli occhi del pubblico e un testo-tessuto continuo che non è di nessuno e perciò diventa di tutti –, lo spettacolo sembra voler riprendere una questione di fondo: di che cos’è fatto il teatro? Affrontandola a proprio modo, la sposta. Anzi, la ri-sposta.
E finalmente, si potrebbe dire. In un’epoca marcata dall’inquietante ritorno della pièce bien faite, della parola letteraria, di una drammaturgia che si fa chiamare contemporanea ma spesso rigurgita, neanche troppo velatamente, il gusto del dramma borghese, Naturae è scrittura dei colori e delle luci, del suono e del tempo; dei corpi, delle azioni, soprattutto delle relazioni. Tuttavia, c’è moltissimo testo, ma secondo un modo di dire la parola che non ha paura di evocare, anche a rischio di non farsi sempre del tutto intendere.
Dall’altro lato, viviamo un momento in cui la “fame di realtà” ha ridotto le scene europee a un interminabile reality show: l’avevamo poco tempo fa salutata come l’ultima nouvelle vague della ricerca teatrale, filosofica, televisiva, e ha finito invece col resuscitare una passione per la verosimiglianza che pensavamo sepolta da decenni. Invece, in Naturae – come di consueto nella pratica della Fortezza – non si fa parola sulla condizione dei suoi attori, nessun cenno diretto e esplicito. Nonostante ciò, l’energia che portano in scena è fortissima, e la loro situazione è ben presente per chi la conosce; solo che si può anche per qualche momento, insieme, “dimenticarla”. È forse questa una delle grandi possibilità del teatro: la libertà di vivere la realtà in un altro modo; di cambiarla se non ci va bene, attori e spettatori insieme; e soprattutto di costruire altri mondi, anche di sogno, anche totalmente utopici.
Diceva Ferdinando Taviani che la cultura teatrale occidentale si fonda su di una spaccatura: il paradigma scenico cosiddetto moderno nascerebbe dalla separazione fra palco e platea nel Rinascimento; diventerebbe egemonico in Europa lungo il Settecento col modello “all’italiana” imperniato sulla quarta parete (invisibile ma ben presente); fino a infrangersi sulle rivolte delle prime e seconde Avanguardie nel Novecento. Lì artisti e spettatori hanno provato a ricomporre la frattura creando spazi-tempi altri dove sperimentare modi di lavoro, di arte, di vita diversi da quelli correnti. Solo che oramai a volte sembra che l’abbiamo dimenticato.
A un certo punto, in Naturae, alcuni attori tendono un filo e lo offrono agli spettatori, chiamati a trattenerlo per un po’, come a materializzare un contatto. Scarlatto, ha davvero la potenza di un fil rouge. Può rappresentare un legame che congiunge tanto il mondo magico della scena con la quotidianità della platea, quanto – in un singolare rovesciamento – la verità della Fortezza con il potere immaginativo del pubblico. È un trait d’union fra lo spazio interiore di ciascuno e quello esteriore/collettivo che si può sperimentare anche in teatro. Indica una possibilità fra quello che è e quello che ancora non è, ma potrebbe essere. Come evidenziano Gianni Forte e Stefano Ricci, l’immagine di progresso inarrestabile su cui s’impernia la civiltà tardo-capitalista occidentale nasconde una dimenticanza: “che non siamo di fronte al mondo, ma nel mondo”. Il chè risulta particolarmente rivelatorio quando lo rapportiamo alla platea, alla posizione dello spettatore e della critica. Se il teatro è storicamente il luogo della differenza, dove si fronteggiano le diversità, la verità è anche un’altra: infatti, è uno dei pochi posti rimasti nella nostra società in cui, appena varcata la soglia, seduti in sala, cominciamo, volenti o nolenti, a far parte di qualcosa. Si torna, seppur temporaneamente, collettività; e così, forse, si profila la possibilità di esistenza di una responsabilità condivisa, in un mondo che sembra aver rinunciato alla delega e alla rappresentanza in nome della hybris della partecipazione diretta.
Di questa potenza delle arti performative, spesso occultata ma sempre pronta a riaffiorare, è testimone eccezionale Armando Punzo, prima della Fortezza “guida” nel para-teatro di Jerzy Grotowski e poi parte di un’esperienza eretica poco studiata quale quella del gruppo L’Avventura. E questa possibile forza del teatro ce la ricorda in primis la scelta di ricci/forte di conferire il Leone d’Oro alla carriera a un artista che ostinatamente da più di trent’anni entra ogni giorno in carcere per cambiare il teatro e il mondo, portando avanti un progetto politico-poetico in cui si rigenera ogni volta un senso possibile per l’arte scenica e non solo.