La dicotomia NIGER et ALBUS è legata a una iconografia transculturale dotata di radici sociali, rituali o religiose e antropologiche; può perciò consentire di uscire dalle gabbie dell'eurocentrismo per raggiungere un altrove: un oriente che a partire dal nero e dal bianco genera il tutto attraverso la contrapposizione dei principi dello 阴 Yin e dello 阳 Yang.
阴 Yin e 阳 Yang non designano due entità rivali, quanto due classi opposte di simboli: Yin è l'oscurità, la luna, il freddo, l'acqua, il nord, la quiete, il femminile; Yang è la luce, il sole, il caldo, il fuoco, il sud, il movimento, il maschile. Eppure, a differenza del dualismo nero/bianco del simbolismo occidentale, nello Yin e nello Yang non trova spazio una contrapposizione tra male e bene: si tratta semmai di un'alternanza equilibrata tra due forze che genera l'intero mondo visibile.
Nonostante la scelta del dualismo ombra/luce e la prepotente connotazione che porta con sé il latino come codice linguistico, niger et albus può trasformarsi in un tentativo per rifuggire la polarizzazione: per raggiungere uno spazio significante in cui nero e bianco non incarnino il positivo e il negativo, bensì l'insieme unitario del cielo e della terra (天地 Tiandi), dell'esistente (万物 Wanwu), della mente-cuore dell'essere umano (人心 renxin), nel teatro e nell'arte.
Ilenia Cugis
Vaiva Grainytė, Lina Lapelytė, Rugilė Barzdžiukaitė – artiste lituane che La Biennale già aveva riconosciuto con il Leone d’Oro all’Esposizione Internazionale d'Arte nel 2019 – ritornano in città a distanza di cinque anni con un progetto del 2013, Geros dienos!, ossia Have a Good Day!, e un laboratorio per la Biennale College Teatro.
Le tre autrici sono cresciute e si sono formate in Lituania, dove sono attualmente attive. I loro interessi si distinguono nei vari campi dello spettacolo, dalla regia alla direzione musicale, con un’attenzione condivisa verso l’indagine del presente tramite la lente della quotidianità, nelle sue sfumature, nei suoi significati e rimandi.
Vaiva Grainytė si occupa di riscrivere la vita di tutti i giorni attraverso forme poetiche che si celano in essa. Nel 2012 pubblica Beijing Diaries, raccolta di riflessioni sulla vita nella capitale cinese “in divertenti miniature antropologiche”, mentre il romanzo del 2022, Roses and Potatoes, tenta di decostruire il concetto contemporaneo di felicità.
Lina Lapelytė indaga lo spazio che abitiamo tramite i suoni, in un unico, grande, potenziale coro polifonico, polistrumentale, polimorfo. Nel 2022, per Lafayette Anticipations, ha presentato The Mutes, performance tenuta da persone senza formazione musicale, definiti “musical outsiders” dal New York Times.
Rugilė Barzdžiukaitė esplora il divario tra realtà oggettiva e realtà immaginata, giocando sul sovvertimento del tradizionale sguardo antropocentrico. Acid Forest, documentario con il quale ha vinto il premio dello sponsor Swatch al Locarno Film Festival nel 2018, tratta di un surreale rapporto tra uomini e cormorani nella penisola di Neringa, striscia di terra tra Russia e Lituania.
Con Have a Good Day!, le tre artiste si riuniscono in un unico progetto eterogeneo a partire dai propri campi di indagine e, più genericamente, da uno sguardo politico ed estetico comune, che le porterà a collaborare fino a Sun & Sea (2019).
Il concetto della loro prima opera è semplice: il contesto è quotidiano, la scenografia è ambientata in un centro commerciale, dieci luci al neon, dieci cassiere lituane, dieci grembiuli che – come per le operaie dell’industria Rifle nel Mugello del libro di Simona Baldanzi Figlia di una vestaglia blu – descrivono bene la loro condizione sociale. “Buongiorno”, “Grazie”, “Buona giornata”: dieci donne, ognuna con la propria storia, la propria età, le proprie ambizioni, scompaiono, nascoste dal velo di giudizio legato all’essere cassiere. Robotiche, esibiscono sorrisi rassicuranti in un gioco che le rende prodotti della società contemporanea, in uno spazio che potrebbe replicarsi all’infinito, senza cambiare mai. Dietro l’apparenza si celano però storie di emigrazione, disoccupazione e mentalità patriarcale dominante. Con leggerezza ed ironia, sul palco viene messa in scena la surrealtà dell’attualità che scorre rapida, persa nell’abitudine, cieca di fronte a immagini ricche di significato, anche se sono solo dieci cassiere, dieci “vestaglie blu”.
Have a Good Day! è un esperimento, un messaggio, un invito a riflettere sugli spazi che abitiamo ogni giorno, uno sguardo genuino in cerca di risposte. È un tentativo di avvicinamento del teatro ad ambienti a cui, a prima vista, non appartiene. Per questo è una scelta politica, poetica forse: raccontare senza orpelli il periodo storico nel quale siamo gettati, tentare di redigere un libretto delle istruzioni per chi verrà, per costruire il migliore dei mondi possibili.
Quando il compositore veneziano Luigi Nono scrisse La fabbrica illuminata, incappò nelle maglie della censura della sua stessa committenza: la Rai, infatti, gli impedì di presentare il lavoro nel contesto per cui era stato ideato, ovvero il concerto inaugurale del Premio Italia (ora conosciuto come Prix Italia).
La fabbrica illuminata fu concepita originariamente come episodio che sarebbe dovuto confluire in Un diario italiano, opera mai portata a termine, frutto della collaborazione con il poeta e drammaturgo Giuliano Scabia. Composizione per soprano e nastro magnetico a quattro piste, con testi dello stesso Scabia e di Cesare Pavese, si era poi affermata in quanto creazione a se stante: venne presentata al pubblico, per la prima volta, nell’ambito del 27. Festival Internazionale di Musica Contemporanea della Biennale di Venezia, il 15 settembre 1964, a Venezia, con la soprano Carla Heinus come interprete.
La fabbrica illuminata avrebbe dovuto condividere con l’iniziale progetto di Un diario italiano un’impronta socialmente e politicamente impegnata, aspetto che fu la causa principale del rigido intervento censorio. Infatti, la composizione, esplicitamente dedicata ai lavoratori dell’Italsider di Genova-Cornigliano, attinge a piene mani dai suoni concreti dell’ambiente della fabbrica del genovese e dal vociare scontento degli operai impegnati nella lavorazione dell’acciaio. Il materiale raccolto è sfruttato e rielaborato su nastro per articolare una denuncia nei confronti del sistema capitalista e delle pessime condizioni lavorative e di vita delle persone impiegate nelle fabbriche: è il periodo delle rivendicazioni proletarie, della militanza politica.
Sessant’anni dopo ‒ di fronte alla dilagante disoccupazione giovanile, all’aumento del carovita e all’inadeguatezza degli stipendi ‒, la stessa tematica di protesta, declinata diversamente, sembra riemergere nell’opera del trio di artiste lituane Barzdžiukaitė, Grainytė, Lapelytė con Have a Good Day!, per dieci cassiere, suoni del supermercato e pianoforte. In cartellone alla Biennale Teatro 2024, potrebbe condividere con la composizione di Nono, non solo la messinscena veneziana, ma anche una variazione sulla linea comune dell’accusa alla società capitalista.
Allargando lo sguardo, l’utilizzo di materiali compositivi inusuali fa pensare inoltre alle partiture sonoro-visive cageiane, oltre che al contesto produttivo noniano. Il compositore John Cage, infatti, abbina l’uso di strumenti musicali a oggetti quotidiani non necessariamente concepiti per produrre musica: per fare un solo esempio, l’azione Water Walk, messa in onda nel contesto del programma televisivo italiano Lascia o raddoppia, è un’opera per pianoforte, cinque radio e trentaquattro diversi materiali, tra cui papere di gomma, cubetti di ghiaccio e un frullatore.
Con Have a Good Day! il soggetto cambia: il focus si sposta su un’altra tipologia di produzione seriale e di lavoro ripetitivo, che vede coinvolta una componente tutta al femminile. Le dieci cassiere in scena, al suono della cantilena cadenzata delle solite frasi di cortesia preimpostate – “Buongiorno”, “Grazie” e “Buona giornata” –, rivendicano un riscatto dell’individualità, ben viva e presente sotto la facciata stereotipizzante imposta da un sistema che anestetizza e appiattisce.
Oggi come allora, si mantiene attuale il rischio di perdita del sé di fronte ai meccanismi alienanti di una produzione consumistica massificata, verso un noi che non è espressione di una vera comunità, ma un accorpamento di soggetti svuotati della loro specificità.
Ma anche quella che era la pars destruens della composizione di Nono, che puntava ad attaccare l’apparato dalle fondamenta e che aveva un evidente intento polemico, potrebbe trovare oggi un bilanciamento nell’opera delle tre artiste lituane e nel loro sguardo disincantato. Dalla rabbia distruttiva e totalizzante, si passa a un atteggiamento che fa dell’ironia amara e della sagacia le armi migliori per esercitare un’opposizione alla struttura capitalistica, sempre così ingombrante, che, pur modificandosi dagli anni Sessanta ai giorni nostri, mantiene la sua soffocante pervasività.
Se ricordiamo la promessa fatta all’inizio di questa Biennale Teatro, quella di guardare al passato con occhio critico, usandolo per sondare e snodare le trame della contemporaneità, allora si apre davanti a noi un percorso possibile composto di riferimenti ai classici della letteratura e del mito. E, così, alcune fra le compagnie di quest’anno si confrontano coi grandi modelli. A partire dal dialogo che i Gob Squad instaurano con Dorian Gray, nell’ambito di uno spettacolo metateatrale, passando per la Medea iperrealista di Milo Rau e per Re Lear con Tim Crouch, fino alla “mancata” Orestea di Luanda Casella.
La presenza di questi riferimenti, da una parte, riporta all’idea che il limite tra passato e futuro sia qualcosa di intangibile, di inesistente, come se i tempi si compenetrassero. Dall’altra, potrebbe far scaturire una riflessione su come il teatro contemporaneo si approcci alla tradizione letteraria europea. Pare che si senta la necessità di affondare le dita nella terra, per cercare le radici, o per sradicarle.
Come confrontarsi coi maestri? Facendo in modo che i testi di partenza diventino suggestioni, lasciare che si tramutino in frammenti, in fili sfibrati che si innervano in un quadro più grande. L’Orestea è stata adattata più e più volte, si tratta di un testo che affascina la nostra cultura da sempre, essendo anche l’unica trilogia arrivata a noi integra. La tragedia originale di Eschilo può essere letta come un discorso sulla capacità dell’uomo, nonostante tutte le difficoltà, di costruire le fondamenta della città a partire dal logos e dal raziocinio. Nel corso degli anni, le riscritture della trilogia eschilea sono state permeate dalla sfiducia, evidenziando l’impossibilità di compiere il salto dalla società arcaica a quella “civilizzata”. Per fare un esempio, già nella versione di Luca Ronconi del 1973, il logos era qualcosa che marciva nella bocca degli attori, che ne fuoriusciva a fatica: pensare a una ricostruzione della società iniziava già a sembrare un’impresa sconfortante. Elektra Unbound di Luanda Casella, che andrà in scena in questi giorni, sembra proseguire su questa linea, ma sotto il segno dell’ironia (e dell'autoironia) tipica della cultura degli ultimi anni.
Lo spettacolo ruota attorno a una compagnia teatrale che tenta di allestire la tragedia, risultando però impacciata e incapace nel farlo. I teatranti in scena si fanno quindi specchio di una generazione che non è nemmeno più in grado di appropriarsi dei miti.
C’è chi invece sembra voler intersecare la dimensione sociale-documentaria con quella mitologica, come Milo Rau, che dopo l’Orestea in Mosul, il Nuovo Vangelo e l’Antigone In Amazzonia, propone quest’anno a Venezia Medea’s Children. Scegliere di ricorrere al mito come base per un ragionamento di tipo sociale e politico permette di fare leva su un portato emotivo che è atavico e condiviso. La Medea di Rau si avvicina anche a un discorso pedagogico proprio della forma mitologica: la voce dei bambini, muti perenni nelle narrazioni come nella vita vera, viene messa al centro e diventa così protagonista della riflessione su cosa significhi famiglia, su cosa voglia dire crescere e capirsi.
Non è solo il lascito di greci e latini a fare capolino in questa Biennale Teatro bianco-nera: ognuno sembra portarsi dietro un suo proprio bagaglio culturale. Il collettivo Gob Squad e Tim Crouch tornano alla tradizione letteraria e drammaturgica inglese; i primi attingendo al Ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde in Creation e il secondo appoggiandosi al Re Lear di Shakespeare in Truth’s a Dog Must to Kennel. Sono tessiture tangenziali, queste, non propriamente lavori di riscrittura. Gob Squad prende dal testo solo scampoli di frasi e suggestioni, Crouch invece abita due teatri contemporaneamente, è con noi ma sta anche assistendo a una replica di Re Lear, e di quello spettacolo ci racconta ciò che accade in scena, con particolare cura per le figure di Edgar e del Fool. Il titolo fa riferimento proprio a una frase che quest’ultimo personaggio dice al Re, rimproverandolo di aver punito Cordelia – sua figlia – solo per avergli detto la verità. Crouch è il Fool shakespeariano: piange per noi la morte del teatro, piange la morte di un'arte collettiva che porti all’empatia e alla condivisione. Si torna quindi al passato, il biglietto di andata e ritorno l’abbiamo timbrato, e scopriamo ancora e ancora il dialogo con ciò che è stato, nel tentativo di capire dove stiamo andando, quale sarà la prossima fermata.