All’origine di tutto c’erano le forze opposte: luce e ombra, bianco e nero, male e bene. Anche alla fine del mondo, nel presente che conosciamo, quei contrari tornano ad avere senso e impatto, come un biglietto di sola andata verso un nuovo inizio.
Niger et Albus è la dicotomia primigenia, ed è al tempo stesso il tentativo di superarla, guardando al confronto con ciò che è stato e tuffandoci adesso nel magma di sfumature grigie, per superare quel dissidio, per confrontarci con ciò che c’è sotto. A cercare risposte, però, si rischia di perdere la strada nel labirinto, di rimanere incantati a osservare le ombre stagliarsi sulle sue pareti, intenti a scrutare i ritagli di luce. Abbiamo girato l’angolo, come moderni Teseo ci spostiamo di teatro in teatro, in una laguna opaca di riflessi ingannevoli.
C’è anche da auspicare, infine, di ritrovare la via, superando i sentieri inestricabili che compongono il mondo oggi, la contemporaneità, nell’inesauribile flusso di nuance da capire e osservare. Rimaniamo allora appesi al nostro filo d’Arianna, stretto tra le mani, sperando che tenga, che non si perda, confidando che esso, come una guida, conduca attraverso questa 52a edizione della Biennale Teatro. Ma senza fretta, come ricorda il catalogo di quest’anno, con le sue parole incrociate. In fondo, anche perdersi può essere un gioco. Va colto allora l’invito a iniziare, e queste giornate diventano un tabellone da attraversare, con calma, chiaro: è ancora presto, siamo solo alla quarta casella.
Ginevra Zaretti
Nel celebre studio Il teatro di Eleonora Duse, la storica Mirella Schino individua la presenza di un “repertorio-canzoniere” che la grande attrice crea nel corso del tempo attorno a sé: “un mondo parallelo composto pezzo per pezzo, interpretazione dopo interpretazione, un mondo che resta in piedi e non viene abolito a ogni cambio di pièce”. A un secolo di distanza dal successo della Duse, ci si potrebbe domandare se la poetica di Miet Warlop non si configuri anch’essa nei termini di una rete di rimandi espressivi e interconnessioni figurative, che trovano una loro coerenza nel momento in cui sono attraversati da uno sguardo trasversale.
Artista visiva e regista teatrale ormai affermata, Warlop conduce la sua ricerca tra spazi espositivi e palcoscenici, scegliendo la strada della contaminazione di registri e linguaggi per esplorare i rapporti tra statico e dinamico, corpo e oggetto, musica e parola, individuale e collettivo. Classe 1978, nasce a Torhout e consegue il master in Arti visive diplomandosi nel 2004 presso la Royal Academy of Fine Arts di Gand con il progetto installativo Huilend Hert, Aangeschoten Wild, per il quale riceve il premio Franciscus Pycke del KASK. I primi riconoscimenti pubblici espongono la giovane artista alla scena internazionale e la spingono a orientare il proprio lavoro verso la dimensione propriamente teatrale e registica, permettendole di esplorare le potenzialità espressive dei corpi in relazione al codice scenografico e sonoro.
Fin dalle prime produzioni – come SPORTBAND / Afgetrainde Klanken (2005), Springville (2009), fino a Mystery Magnet (2012) –, la ricerca di Warlop si sviluppa nel segno di un teatro fisico, dominato dallo sforzo muscolare. Accanto agli interpreti, sul palcoscenico sfilano oggetti e costumi investiti di un significato non convenzionale, immersi nell’esuberanza di tensioni contrapposte che avanzano un flusso di dubbi, domande irrisolte e desideri verso cui tendere: un registro ironico e irriverente imbastisce un delirio visionario, caotico, allucinato, in cui violenza e dolore s’insinuano tra le pieghe della performance come espressione di istanze private, che, se agite di fronte a un pubblico, possono essere ripercorse ed esorcizzate dalla condivisione collettiva.
Le mutate condizioni sociali nel corso della pandemia spingono la regista belga a realizzare la sitcom Slamming Doors, lavoro in cui si innesta un ripensamento più ampio sugli allestimenti precedenti: un ritorno al passato, per trattenerne l’essenza riscrivendo la punteggiatura, le pause, le conclusioni. After All Springville (2021) nasce a partire dal lavoro quasi omonimo di dodici anni prima (Springville) e dall’installazione Amusement Park (2017), e affida il compito di raccontare un’umanità fallita a elementi scenici e costumistici surreali: protagonista è una casa di cartone dall’anomala architettura, popolata da creature difformi, per metà uomini e per metà elettrodomestici, che condiscono di grottesco la scena trasportando il pubblico all’interno di un film d’animazione. ONE SONG: Histoire(s) du Théâtre IV (2022) si inserisce invece entro la cornice di quattro racconti, che Milo Rau – direttore artistico di NTGent dal 2018 al 2024 – commissiona a Warlop, Faustin Linyekula, Angélica Liddell e a se stesso; tentando di ricostruire la propria storia come artista di teatro, la regista allestisce uno spettacolo in grado di collocare il senso di sofferenza del precedente SPORTBAND sotto una luce positiva, gioiosa, volta al superamento dei limiti precostituiti in nome di una connessione umana universale.
Numerosi sono gli elementi che ricorrono nelle produzioni di Miet Warlop, dall’interesse per l’incontro tra vivente e non vivente alla tensione decontestualizzante che investe la presenza umana in scena. E come un’opera che, se estrapolata dalla cornice che la contiene, pare limitarsi a un esercizio autoreferenziale, allo stesso modo occorrerebbe superare una visione parcellizzata dei singoli spettacoli, considerandoli in quel rapporto di interdipendenza con gli altri allestimenti in grado di restituire l’immaginario poetico che dà origine all’atto creativo.
Volano gli aironi, le zanzare, i tacchi scricchiolano sulla ghiaia. Il sole scotta la pelle, l'aria si impregna dell'odore del caffè, delle pozze d'acqua, dell'erba e dei suoni delle lingue del mondo. La Biennale Teatro 2024 è stata inaugurata a Mestre per fuggire dai confini, per evadere dalla città, dal cuore, verso una periferia pronta a essere centrale. Gli spazi di Forte Marghera accolgono l’installazione Elephants in Rooms di Gob Squad, ripensata per inserirsi nei locali dell’edificio in un richiamo reciproco tra le forme degli schermi e delle finestre del Forte, in una combinazione armoniosa di luce e orizzontalità.
Una ricerca online consente subito di individuare il numero crescente di bandi rivolti alle performance site-specific: questo varco sul contemporaneo offre l'occasione per una riflessione urbana legata ai mondi dell'arte e al rapporto tra Cities and the Creative Class, nell'attesa di assistere a Bolide | Deus ex machina di Elia Pangaro, vincitore del bando Performance Site-specific della Biennale College Teatro 2024.
Il legame tra paesaggio, cultura e performatività mette a disposizione un ampio bacino di studio, esplorato dalle scienze sociali, dalla geografia culturale e dagli artisti stessi; un ambito indagato a partire dalla fine degli anni Cinquanta nel filone dei cultural studies, approdato quindi in teatro con l'uscita dalle sedi al chiuso e con la (ri)appropriazione dell'ambiente cittadino come spazio di rappresentazione. Durante gli anni Sessanta, la rivendicazione dell'esterno, di strade e piazze, era una scelta connessa al senso del luogo pubblico in quanto tale, piuttosto che all'identità di un dato paesaggio o frammento, in un momento storico in cui il rapporto tra arte e politica non era fintamente celato.
Oggigiorno, la ricerca site-specific si focalizza non tanto sulla materialità quanto sull'ideologia e sul valore delle raffigurazioni simboliche di una determinata sede o porzione di territorio, con lo scopo di rilanciarla e metterla in risalto. Se una fotografia di Piazza San Marco consente a tutti di riconoscere di quale città si tratti, non parla di Venezia nella sua totalità: rimanda a una cartolina, a una mercificazione, a una disneyzzazione che vorrebbe trasformare il centro storico in un parco tematico. Con le performance site-specific, al contrario, è possibile scorgere il paesaggio urbano nella sua attualità, nella sua continuità con il passato e nelle sue stratificazioni.
Allo stesso tempo, è importante non cadere nel tranello di utilizzare l'arte come strumento per “abbellire” le periferie, sfuggendo alla narrazione dell'aggregato anonimo; i margini dell'abitato sono zone pioniere di trasformazione socio-culturale e artistica: non devono inseguire il centro storico per assomigliargli, ma abbracciare le proprie differenze e peculiarità, offrendo i loro spazi a un teatro che può permettersi di sperimentare e giocare su nuove dinamiche e linguaggi.
Un discorso analogo si può affrontare per cogliere le sfaccettature interetniche delle aree metropolitane. Nelle zone liminari si insedia l'abitare di coloro che provengono dall'esterno: dal territorio immediatamente circostante e dagli altri Paesi del mondo. Ed è proprio a partire dall'incontro multiculturale dei residenti delle nuove città che la ricerca e la sperimentazione fioriscono, in un arricchimento reciproco meritevole di essere salvaguardato, al fine di scongiurare il pericolo della prevaricazione della cultura dominante su quelle considerate minoritarie, dando vita a nuove forme di colonialismo.
Da premesse affini si muove la Biennale Arte 2024, con il tema Stranieri Ovunque – Foreigners Everywhere. L'Esposizione ospita le opere di artisti internazionali provenienti anche dalle aree marginalizzate dal “geo-pensiero dominante”, così com’è stato definito nella brochure dell’esposizione; ecco che il diverso, lo straniero, il viaggio e l’integrazione si frantumano e ricompongono negli spazi interni ed esterni di Venezia, in una collocazione diffusa che ancora una volta si spinge fino alla terraferma. Tali movimenti circolari e migratori di idee e persone modificano, influenzano e travolgono l'ambiente urbano e l'interazione sociale, riscrivendo i paradigmi dell'arte e del teatro: un fluire ondivago, fecondo e vitale.
I corpi di dieci cassiere, di cui nessuno saprà mai il nome, sono annichiliti, già ridotti ad automi. Così ha inizio Have a Good Day! di Vaiva Grainytė, Lina Lapelytė, Rugilė Barzdžiukaitė.
Dieci di tutto: di camicie slavate, di grembiuli, di scanner, di fogli traslucidi con codici a barre; dieci di sedie, di tavoli che fungono da podi, di beep, e anche di neon.
Senza soluzione di continuità, sempre in file da dieci, le lampade proseguono sopra la platea, obbligando lo spettatore a vestire i panni del cliente-x di un supermercato. Ogni forma, dunque, è sottomessa a un duro processo di ripetizione, e la ripetizione la svuota.
L’ambiente soverchia, igienizza e assorbe. Tutto è perfetto perché tutto è vuoto.
Per dieci si moltiplica anche la solitudine. Nessuna cassiera bada all’altra, la questione delle forme-che-combaciano riguarda, perciò, anche il linguaggio. Messa sotto scacco la comunicazione dialogica, l’unica via percorribile, poiché sviluppata secondo precise regole di ripetizione, sembra essere quella dei componimenti polivocali. È così che viene messo in scena una sorta di dainos contemporaneo (dainà sono i canti popolari lituani): la cultura orale – in cui la Lituania affonda le sue radici fin dai tempi più remoti – è forse un terreno da tentare per un’azione di riscatto, in virtù dei suoi meccanismi di ripetizione, ma anche perché può essere rappresentativa di un’identità collettiva profonda.
Dall’uguaglianza sorda, impermeabile e stordente del luogo, ognuna delle performer eleva a turno la propria voce, la propria persona singolare, la propria vita privata, rievocando i toni caldi di epiche antiche. Nel clima assai sinistro in cui il contenuto di protesta viene corroso e neutralizzato da somi composti e sorridenti, c’è chi denuncia di non riuscir mai a vedere la luce, chi è di turno anche a Natale e chi invece dice – “piena la vescica / è la mia amica” – di non aver tempo nemmeno per urinare. Sebbene sia solo il pubblico a raccogliere di ciascuna le confessioni, le altre cassiere, poiché ottusamente impegnate ad azionare gli scanner, partecipano sempre e solo in un secondo tempo, moltiplicandone la traccia sonora, sovrapponendosi all’unisono o a canone. Eppure, questo loro ascolto indiretto, che non risponde ma ripete, basta quel tanto da capovolgere la geografia in cui sono tutte trincerate, spingendola sino al suo estremo punto di rottura.
Attraverso uno straordinario corpus di liriche, connotato dalla cifra stilistica ironico-amara tipica della librettista Grainytė, lo spettatore viene condotto verso la fine (o verso l’inizio?), più a fondo sicuramente, sotto il livello del terreno.
All’improvviso, si sente provenire da sopra un rumore ovattato di treni sulle rotaie, e i neon perdono la loro stabilità: la luce ora pulsa ora si spegne, ma il canto continua, indefesso, come se non stesse accadendo nulla per davvero. La scena è pregna di tensione. Il bianco ottico delle quinte come del fondale va in rottami e, con esso, ciò di cui era garante: la sterilità dell’ambiente e la conservazione sottovuoto di tutti i suoi prodotti, corpi-ridotti delle cassiere compresi. Lo sgretolamento della luce, adesso intermittente, è l’effetto visibile della spessa unità sonora con cui ognuna delle performer ha provveduto a espellere, denunciandola, la propria singolarità. Lo spettatore, perciò, è testimone di vite intime e invisibili, emarginate e precarie che deve registrare prima che la ferita aperta si rimargini, prima che tutto torni come prima.
Il treno termina il suo transito, i cavi tornano a condurre indisturbati l’elettricità e le cantastorie attonite si congedano con la frase con cui tutto era iniziato: “Hello! Thank you! Have a good day!”.