Si ragiona per archetipi, nei tarocchi. Figure rigide e inesorabili, modelli originari da cui attingere, che rimangono però sostanzialmente irraggiungibili, nonostante sia possibile per ognuno rispecchiarsi in essi.
Anche nelle carte non esiste un nero assoluto o un bianco abbacinante, la cui idea mentale corrisponde alla realtà effettiva. Del resto, l’oscurità di una notte di Luna è pur sempre bilanciata dal suo pallido chiarore, mentre la tiepida luce del Sole si fa comunque foriera di zone d’ombra.
Abbiamo così Niger et Albus, agli estremi, e le inevitabili sfumature di grigio nel mezzo.
Gli Arcani maggiori – assegnati a ciascun performer nella presentazione del cartellone – ci accompagnano come moderni psicopompi in un viaggio tra il principio del tutto e la fine dei tempi: dall’innocenza che cela il subbuglio del potenziale inespresso appartenente al Matto, fino alla completezza e realizzazione del Mondo, che si fa preludio per l’inizio di un nuovo ciclo. L’individualità autoriferita dell’Eremita, la monade dell’io-spettatore, lascia spazio al dualismo degli Amanti, cioè al ‘noi’ che scaturisce dalla relazione intima con l’artista: si genera così la sacra unione tra il principio femminile incarnato dall’Imperatrice e quello maschile nell’Imperatore, che si mescolano dando vita all’androgino.
L’incenso viene lasciato ardere, le carte sono già state estratte e distese di fronte a noi: non ci resta che prendere posto e voltare il prossimo Arcano, proiettandoci verso la quinta giornata della Biennale Teatro.
Letizia Chiarlone
Negli ultimi anni si assiste sempre di più al proliferare di una produzione spettacolare strettamente connessa allo spazio domestico, ai luoghi d’origine: un fil rouge che accomuna allestimenti lontani per impostazione registica e sviluppo drammaturgico, tracciando una linea di ricerca intorno ai confini della geografia in cui si cresce, da cui ci si allontana, a cui, nonostante tutto, si rimane indissolubilmente legati.
Al centro dello spazio scenico delle Tese dei Soppalchi s’innalza una casa di cartone che pare progettata a partire dal disegno di un bambino, con contorni ben squadrati e definiti, munita di una porta e una finestra rifilate al millimetro. A firmare la regia di After All Springville (2021) è Miet Warlop, che traccia un racconto dell’assurdo a pennellate di grottesco e surreale, trasportando lo spettatore all’interno di un mondo definito da coordinate spazio-temporali incerte, forse uscito da un disastro apocalittico, forse piombato fuori dall’episodio di un cartone animato.
Come un vero e proprio organismo vivente, il grande edificio assorbe e rigetta creature simili a cyborg, a metà tra la specie umana e congegni difformi, quasi frutto di una strana illusione ottica. Esibendosi in numeri dal sapore circense, i performer si misurano con la visibilità estremamente ridotta (o addirittura assente) che il costume di scena impone: chi soffocato dalle superfici di un cubo forato, dotato di un bizzarro occhio-cannocchiale; chi piegato sotto il peso di un grazioso tavolino ricoperto da una tovaglia bianca; chi arrampicato l’uno sull’altro a dar vita a un gigante alto più di tre metri; chi, infine, serrato in un quadro elettrico di cavi e connettori che sprizzano scintille a ogni sbalzo emotivo.
In un teatro privo di parola, la scansione dell’intreccio è affidata agli ingressi e alle fuoriuscite di queste anomale figurazioni dai varchi d’accesso della casa. A nulla giovano gli sforzi linguistici del bizzarro spilungone che suscitano il divertimento generale della sala: le sole espressioni comprensibili sono le urla di spavento e di dolore, le risate compiaciute di fronte al fallimento e all’inadeguatezza altrui. Se ogni tentativo di comunicazione verbale è negato, un trattamento diverso è riservato al subbuglio emotivo che ribolle nella carne degli abitanti di questo giardino di desolazione: un tremore nelle gambe di Milan Schudel, rivestite da un’attillata calzamaglia di nylon e impreziosite da vistosi tacchi neri; un farneticare di braccia e mani nel gesticolio di Jarne Van Loon, che si agita per aria come a cercare appigli inesistenti.
Ecco che, dietro il rivestimento di un’irriverenza visiva giocata su apparizioni spiazzanti e sequenze esilaranti, si nasconde una non-umanità distrutta, governata da un muto sistema di leggi arbitrarie. A narrare la grande epopea del postumanesimo a cavallo tra il secondo e il terzo millennio è l’abitazione che troneggia sovrana di fronte agli spettatori: nido e prigione allo stesso tempo, inghiotte, schernisce, abbatte i personaggi che le vorticano attorno. Una visione antropologicamente decentrata mette l’umanità da parte, collocandola in una zona liminare, che ne interroga i limiti, i vizi, gli eccessi.
Di fronte alla morte di ogni personaggio in scena, la casa reagisce con sbuffi di fumo bianco, per terminare con un’esplosione viscerale di tubi gonfiabili colorati, che invadono ogni angolo dello spazio disponibile, raggiungendo anche le prime file della platea. Aggrappandosi a un ultimo respiro, contando i battiti di un cuore che si sta spegnendo, il paradossale lunapark di interiora, condotti e vene contorte ideato da Miet Warlop celebra la fine di un’era, lasciando al pubblico, angosciato e trasognato, il compito di ricostruire le nuove fondamenta per l’avvenire.
Pensavamo che il tempo dei collettivi artistici fosse finito. Ci sono stati, nel corso degli anni, alcuni campanelli d’allarme che hanno pericolosamente minato la possibilità di una loro effettiva resistenza nella società contemporanea. La crisi economica ha messo in evidenza una preoccupazione per tutto ciò che non è retribuito o retribuibile, mentre la recente – e tuttavia sfuggente – crisi pandemica ha contribuito chiudendo le porte, fisicamente e metaforicamente, degli spazi condivisi.
Partendo dal presupposto che far parte di un collettivo è faticoso, prende tempo, implica un confronto costante, che spesso porta a dover scendere a compromessi di vario genere, e poi uno sforzo nel cercare personalità umanamente, politicamente, artisticamente affini o almeno interessate alla creazione di un progetto comune, cos'è che spinge artisti, studenti, militanti, scrittori ad associarsi?
In una Biennale Teatro ricca di figure che si occupano singolarmente della regia, della drammaturgia o dello spazio scenico dei propri spettacoli, il contrasto con alcuni collettivi offre uno spunto di riflessione sulla loro persistenza nella contemporaneità.
I Gob Squad nascono a inizio anni Novanta da alcuni studenti che, per non pagare l’ingresso al Glastonbury Festival in Inghilterra, si inventarono una performance che ricevette grande attenzione da parte dei partecipanti alla rassegna.
Non c’era, quindi, inizialmente, una connotazione politica dietro la parola “collettivo”, ma dai componenti del gruppo emergeva una forte necessità di riconfigurare la propria identità a partire da una ricerca di sé tramite le storie che attraversavano e le persone che incontravano.
In un contesto di collettività che si fa spettatrice o, al contrario, in cui gli spettatori diventano essi stessi parte dell’ensemble, i Gob Squad potrebbero essere un'unica persona oppure, viceversa, tutti coloro che, in questo mondo, si fanno domande e cercano risposte da ciò che li circonda.
Ancora: si può parlare di “collettivo” anche per riassumere il rapporto tra tre artiste che si uniscono in un solo, grande progetto? Ciò che lega Vaiva Grainytė, Lina Lapelytė, Rugilė Barzdžiukaitė non è un manifesto, un evento storico, una qualche necessità contingente, ma un interesse, uno sguardo.
Si può sicuramente percepire la collettività in riferimento a un processo di produzione che rivaluta, ancora una volta, i rapporti gerarchici tra registe, attrici e pubblico, valorizzando la crescita personale tramite la cura condivisa.
E forse serve innanzitutto molta fiducia per raggiungere un buon livello di ascolto e, quindi, di equilibrio, per riuscire a creare lavori che parlino delle differenze negli interessi di ricerca, ma anche della diversità di chi viene portato in scena, per il racconto di un unico, grande mosaico umano.
Infine: nel 2004, nel rione Monti a Roma, viene aperto un nuovo spazio, si chiama Angelo Mai e, da allora, quasi come un monito, non sarebbe stato “mai” chiuso. Il collettivo dell’Angelo, Bluemotion, ospita attori e attivisti che aprono il teatro a spazi sociali e politici.
Alla Biennale Teatro il collettivo presenta Cenere, un testo sulla presa di parola, un lavoro plurale che mette al centro l’importanza della comunità e fa da cartina tornasole di un approccio che propone un nuovo modo di fare cultura.
È forse proprio per tentare di esprimere a parole questo futuro e per il duro compito, per una mente sola, di sintetizzare tale procedimento, che oggi nuovi collettivi avrebbero ragione di nascere: in una corsa senza meta, in una competizione senza premio, la comunità tenta di arginare la retorica della prima persona singolare, per parlare da un “noi”. Creare collettivi per definire progetti, ossia gettarsi in un mondo che non aspetta altro che essere interpretato.
In questo collettivo anomalo ed esplosivo della redazione critica della Biennale College Teatro siamo in tante e determinate a cercare una strada che porti il più vicino possibile alla nostra meta, battendo nuovi sentieri e calcandone di vecchi. E anche se il punto d’arrivo dovesse cambiare, almeno sarà interessante aver condiviso il percorso e chi ne farà parte, arricchendolo di significato.
L’imperativo è chiaro: chi fugge deve farsi cantore della sofferenza di chi rimane, perché dietro al muro della censura la vita continua ad accadere. A ridosso delle elezioni in Iran (che si terranno il 28 giugno), Amir Reza Koohestani presenta alla Biennale Teatro 2024 Blind Runner. Lo spettacolo ruota attorno alla storia di un uomo e una donna – marito e moglie – che si incontrano una volta a settimana in carcere; lei è una prigioniera politica e a lui è affidato il compito di restituirle scorci della quotidianità al di là delle sbarre, evitando cimici e telecamere.
Koohestani, dai suoi esordi, si occupa della questione iraniana, eppure il suo teatro si allontana dall’idea di un'arte di denuncia tout court, a favore di un lavoro più ampio sul potere, e su come esso distorca le narrazioni.
Certo, gli spettacoli sono calati nell’aria pesante della repressione islamica, le donne in scena indossano il velo. Ma c’è qualcosa di più universale e al contempo più tetro nella sua opera. Già Hearing (2015) – pur parlando della divisione tra uomini e donne post Repubblica Islamica – era in realtà una cautionary tale sulla manipolazione dell’informazione da parte dei regimi, sulla distorsione della memoria e sulla creazione di false testimonianze.
Dall’avvento della Repubblica nel 1978, gli artisti iraniani hanno dovuto ingegnarsi per superare le maglie della censura. Si sono così creati modi per parlare-senza-parlare della situazione politica del Paese. Gli escamotage sono tanti: nel periodo immediatamente successivo alla Rivoluzione, la produzione artistica si è avvicinata a forme espressive simboliche ed evocative. Tra i rappresentanti di questa tendenza, troviamo il regista cinematografico Abbas Kiarostami – maestro dichiarato di Koohestani –, che ha deciso di rimanere in Iran e, fino alla sua recente scomparsa, di raccontarne i cambiamenti.
Ancora oggi servono modi per farsi sentire, come ci ha ricordato Jafar Panahi quando, nel 2011, all’alba del suo arresto, mandò il documentario di denuncia This Is Not a Film al Festival de Cannes, nascondendo la chiavetta usb che lo conteneva in una torta. Riportano a questo anche le attrici senza volto di The Sun Will Rise (2023), opera del cineasta Ayat Nafaji, nascoste per proteggerle dall'accusa di scempio, che ancora vieta alle donne di recitare: il risultato è quasi perturbante, i dettagli del corpo occupano tutta l’inquadratura, le loro figure si fanno centrali nel rimosso.
Le narrazioni “al femminile” della repressione islamica arrivano principalmente dalle rifugiate. Nell’immaginario europeo spiccano due nomi, due portavoce: Azar Nafisi col libro Leggere Lolita a Teheran e Marjane Satrapi con la graphic novel Persepolis. Quest’ultimo è il racconto autobiografico della vita di Satrapi, tra l’Iran pre-islamico, l’ascesa al potere di Khomeini e la successiva fuga in Francia; un racconto di formazione dai toni pungenti e ironici. Il libro di Nafisi riporta invece la situazione delle donne sotto il regime attraverso il racconto di alcune lezioni private tenute dalla scrittrice a sette studentesse poco dopo essersi ritirata dall’ambito accademico. Il romanzo si appoggia a un'analisi dei classici letterari per parlare dei totalitarismi: Lolita non è più un racconto su un pedofilo e una bambina, ma su una forma di potere (incarnata in Humbert Humbert) che ruba la possibilità di scelta all’individuo; così, tutte le donne iraniane dopo la Rivoluzione sono Lolita.
Se questi artisti lavorano allora per allusioni, curiosamente in Iran la censura diventa spesso una questione prettamente formale, che sposta i testi in secondo piano rispetto alla regia. Troppo preoccupati dai capelli delle donne o dal vino in scena, i censori non si accorgono – o fingono di non accorgersi – di cosa raccontino davvero le drammaturgie. Così, nel 2010 al Festival Internazionale di Teatro FADJR, viene concesso al regista Homayoun Ghanizadeh di presentare una messa in scena di Caligola di Albert Camus. La storia del dittatore romano, naturalmente, riconduceva alla violenta repressione delle manifestazioni contro il governo Ahmadinejad e agli attacchi al Movimento Verde avvenute poco prima, eppure il progetto è riuscito a passare il vaglio del governo.
È difficile parlare di un Paese che contiene in sé due anime: da una parte, quella della censura, dei silenzi imposti, del velo obbligato; e, dall’altra parte, quella di un mondo dalla ricca tradizione teatrale, cinematografica e non solo, che trova modi brillanti per accedere a internet o per festeggiare nei seminterrati di Teheran.
L’Europa è viziata dalle immagini dei telegiornali, che ci portano a percepire la violenza mediorientale come qualcosa di lontano da noi, di incomprensibile e irraggiungibile. Forse il teatro di Koohestani, il cinema di Kiarostami o i fumetti di Satrapi servono anche a questo: a ricondurre la violenza delle immagini di guerra a una dimensione più umana. A ricordarci che le persone in piazza hanno un nome e un cognome, delle famiglie a casa. E che l’avvento dei regimi totalitari – come ha ricordato lo stesso Koohestani in questi giorni – è un processo subdolo, che non fa rumore finché non esplode, quando ormai è troppo tardi.