Per realizzare stampe con l’acquaforte si può usare una lastra di rame, come fosse un foglio bianco. La piastra viene ricoperta da uno strato di cera, uno strato di nero. Il rivestimento viene poi affumicato con un lume a petrolio: è un secondo nero. Dopo una prima stesura del disegno, con un bulino fatto per scalfire, si cercano i bordi, nei punti in cui il mordente corroderà la cera lasciando un solco – il terzo nero. È l’acido a consumare il metallo secondo un processo indiretto di aggressione chimica della tela.
Come in un tatuaggio, il nero penetra a profondità diverse, per creare un contrasto irreversibile. Come nelle fasi di cambiamento, è l’azione di un agente esterno a tracciare segni che si riempiranno di valore.
Quando nel 1799 Francisco Goya vende le sue prime illustrazioni ad acquaforte in un negozio di liquori e profumi di calle Desengaño, a Madrid, stava forse proprio pensando ai momenti di transizione. Con il ritorno della monarchia, Goya si dà a feroci satire di natura politica, clericale ed erotica in raffigurazioni di amori tragici, folletti, persone inutili e sterili galanterie. Lo fa rappresentandoli su lastre di rame da corrodere.
Intanto, personaggi stravaganti tagliati a metà, alti due metri, rifugiati politici, innamorati folli, tavoli con gambe inguainate in collant e tacchi a spillo, a partire dalla Biennale, affollano Venezia e si colorano di bianco e di nero. Vengono da tutto il mondo o forse solo da calle Desengaño, aspettando d’essere incisi e, nel mentre, godendosi la libertà d’imprimersi dietro agli occhi attenti di chi guarda.
Clara Fedi
Nel settembre 2022, Niloofar Hamedi ed Elaheh Mohammadi, giornaliste iraniane, finiscono in prigione per aver denunciato la morte di Mahsa Amini, donna di 22 anni che era stata arrestata dalla polizia morale della Repubblica islamica per non aver indossato correttamente il velo ed era in seguito deceduta in circostanze poco chiare. Da questa vicenda, e dalla visione dei Giochi Paralimpici di Tokyo l’anno prima, Amir Reza Koohestani prende ispirazione per la pièce teatrale Blind Runner (2023), presentata al Teatro delle Tese nel contesto della Biennale Teatro 2024.
Dunque, una storia ispirata da dati reali, storici e fattuali, ma anche dalla fantasia – come viene dichiarato all’inizio da scritte in inglese e persiano sulla lavagna –, all’interno di una rielaborazione che presenta gli stilemi ricorrenti della scrittura scenica di Koohestani: il palcoscenico risulta spogliato di ogni orpello, semplice e sobrio, così anonimo che, per poter collocare la scena, viene fatta un’esortazione metateatrale al pubblico, quella di immaginarsi la sala visite di un carcere e una donna con il velo. L’oscurità scenica si fa cromaticamente netta, tagliente. Lo spazio presenta una dimensione più evocativa che una struttura definita, in grado di rendersi malleabile e richiamare ora una prigione, ora una strada, il corridoio di un albergo, un tunnel di cui non si vede la fine.
Dopo che la protagonista, interpretata da Ainaz Azarhoush, è stata arrestata per aver pubblicato un post compromettente, il marito (Mohammad Reza Hosseinzadeh) va regolarmente a trovarla, una volta a settimana. Li aspettano quattro lunghi anni di visite, inframmezzate dallo spessore di un vetro e spiate da cimici e telecamere. Ostacolati nell’esprimersi liberamente, il loro dialogo si fa sempre più asciutto, banale, piagato dalle incomprensioni e dall’impossibilità di recuperare momenti di quotidianità accumulati nella manciata di minuti che vengono concessi. Le videocamere inquadrano in primo piano i loro volti, che diventano sempre più stanchi, insofferenti, rarefatti.
Sembrerebbe che i due riescano veramente a dar voce ai loro pensieri soltanto in quei momenti in cui si dedicano alla loro passione, la corsa. Raccolti nella loro solitudine, corrono e corrono, l’uno all’aperto, l’altra in ciabatte nel corridoio della prigione, fino ad avere il fiatone. I loro passi risuonano contro il soffitto alto della sala, cadenzati e concitati, mentre i due sfrecciano in direzioni opposte, incrociandosi, inseguendosi, sovrapponendosi nelle proiezioni sugli schermi.
È proprio la corsa a fornire un’occasione di riscatto: la moglie insiste affinché il marito accompagni a una gara in Francia la maratoneta Parissa, rimasta cieca dopo che le hanno sparato in viso (è interpretata dalla stessa Azarhoush, che distingue i due personaggi semplicemente chiudendo o aprendo gli occhi). Quella che doveva essere una trasferta di dieci giorni si trasforma, infine, nell’elaborazione di una complessa manifestazione di protesta, che prevede che i due percorrano il tunnel sotto la Manica in poco più di cinque ore, tra l’ultimo treno della sera e il primo delle sei del mattino successivo. L’azione non è tanto volta alla ricerca di asilo politico in Inghilterra, quanto all’espressione del dissenso verso la proposta di legge che, una volta varata, avrebbe impedito l’accesso al Paese a chiunque avesse tentato di varcarne illegalmente i confini.
Ormai sempre più distante dalla moglie, l’uomo accompagna Parissa nella sua ultima folle corsa, alla ricerca di una libertà ritrovata. “Per essere libero, lasciati intrappolare nelle reti. Per essere libero, occorre farsi legare mani e piedi”: parole che ritornano come una cantilena ipnotica durante lo spettacolo.
E, mentre il treno si fa loro incontro, investe lo stesso pubblico, che sobbalza sulle poltroncine come si dice fecero gli spettatori alla prima del corto dei fratelli Lumière. Si è lasciati con il dubbio, in sospeso.
Ma, per quanto fallimentare possa parere l’esito, il progetto dei protagonisti di Blind Runner – “la lotta per la libertà acquista significato solo in presenza di una folla” – e l’essere stati testimoni del tentativo consacrano uno sforzo condiviso, l’ultimo canto di liberazione.
Con Cenere, due artisti per la prima volta si sono incontrati.
Giorgina Pi – drammaturga, regista teatrale, attivista – rappresenta la lingua che resiste negli spazi di confine, nei margini in rivolta.
A queste geografie della soglia, occupate, fuori campo, diremo così fuori Stato, appartiene l’Angelo Mai di Roma, che ha visto la nascita di tutti i lavori del collettivo Bluemotion di cui la regista fa parte. Dentro la città e contemporaneamente fuori da essa, questo luogo è il punto privilegiato, poiché ibrido, in cui la ribellione si fa atto di vita nuova: anti-patriarcale, autogestita e collettiva, a difesa di tutti i corpi discriminati.
È così che il teatro diventa l’espressione patente di una più vasta ribellione. Attraverso i testi dalla drammaturga inglese Caryl Churchill, infatti, la regista ha affermato l’arte performativa, ora come processo di decolonizzazione dall’eteronormatività (Settimo Cielo, 2018), ora come occasione di lacerazione del suo codice illusorio (Caffetteria Blu, 2018).
Abitato, poi, da esseri eterocliti, il suo teatro raccoglie spesso il mito riconoscendolo come il primo e più antico corpo di cui rivendicare il diritto a una metamorfosi verso il presente. Se in Lemnos (2022) il Filottetedi Sofocle è una donna e dà voce agli antifascisti rimasti al confino ben oltre la fine la Seconda guerra mondiale, in Tiresias (2020) – vincitore di tre Ubu, da Hold your own di Kae Tempest – la condizione di cecità dell’indovino rappresenta la stessa possibilità di scompaginarsi in forme miste in cui si agita “scosso da spasmi”, e risultando così “più della somma delle sue parti”.
Stefano Fortin, autore di Cenere di cui Giorgina Pi cura la regia, è uno dei “novissimi” della scena drammaturgica contemporanea. Vicentino, classe 1989, col suo testo d’esordio George II è arrivato finalista al Premio Hystrio (2018) e al premio Riccione - Pier Vittorio Tondelli (2019).
Diplomatosi come attore nel 2014 presso lo Stabile del Veneto, l’unico corso di drammaturgia che ebbe modo di frequentare durante i suoi anni di formazione fu condotto da Vitaliano Trevisan; si rilevi che sulla scrittura del maestro ha dedicato di recente l’articolo Tutte quelle parole così imprecise (2023 - Fabrizio Serra Editore).
Come il titolo di questo studio potrebbe suggerire, infatti, l’interesse di Fortin verso il linguaggio è l’interesse verso una struttura che collassa: i suoi testi rappresentano il pungolo per cui le figure che li abitano sono costrette a fare i conti col silenzio. Emblematico è il caso del già citato George II, messo in scena con la regia di Alessandro Businaro (2020), in cui l’icona storica del presidente Bush è messa in aspra comunione con l’abbaio di un cane. Poi, passando per i testi Salò, una Fiaba dell’orrore (2019) e Utopia (2021), il drammaturgo è approdato a Cenere (2023), scritto durante la Biennale College Teatro - Drammaturgia Under 40 e messo in lettura nella scorsa edizione del Festival.
Su questo lavoro, ora al debutto alla Biennale Teatro 2024, due generazioni si sono strette la mano: quella di Giorgina Pi, che lo riveste della sua memoria biografica, e quella di Fortin che quella memoria l’ha ereditata storicamente. Le manifestazioni di protesta avvenute nel 2001 durante il G8 di Genova, a cui partecipò la regista, sono infatti uno degli scenari critici a cui Fortin sente di dover tornare per inscrivere tre affreschi distinti, tre storie, che hanno in comune una parola preda di sé stessa, tirata come una corda di violino, eppure destinata a rimanere sepolta in una espressività latente. L'operazione drammaturgica più sofisticata è l’inserimento di note con cui la voce dell’autore irrompe nella narrazione, e così la ripensa e la riconcia.
La lingua, organismo ctonio, che proviene dalle viscere di un vulcano islandese, cade dal cielo come forma residuale di una terra bruciata: quella delle tre vite, e quella più profonda della Storia.
Una delle abilità più invidiate e agognate da un aspirante autore di recensioni è il dono della sintesi. Padroneggiare uno stile elegante e raffinato, servirsi di un registro alto e ricercato, scovare varianti lessicali rintanate nelle pagine più fitte e battute dei dizionari: tutte doti ammirevoli, senza dubbio, ma incapaci di accendere quella scintilla di soddisfazione che attraversa la mente quando una frase riesce a condensare in una stessa riga incisività, colore e chiarezza. Raggiungere un’essenzialità efficace nella composizione scritta comporta un allenamento che non può limitarsi alla sola pagina bianca: lo stesso stile di vita deve adattarsi alla forma mentis della selezione, dello scarto, dello strettamente necessario.
Ecco che il workshop di critica teatrale della Biennale Teatro si presenta come la palestra adatta per sintonizzare la caccia alla nitidezza testuale con le frequenze di consuetudini e ritmi giornalieri assordanti, inclini a una ridondanza barocca e magniloquente. Doccia, fornelli, frigorifero, un comodo materasso su un talamo d’ulivo, magari intarsiato di decorazioni figurative seicentesche: sono tutti complementi accessori che si possono tranquillamente evitare. Asciugando la trama della permanenza, riducendo all’osso gli eccessi della comodità, ciò che occorre – perché di mezzi indispensabili si tratta – non è altro che un divano (se manca il letto), un gabinetto, un lavandino da cui esca possibilmente acqua potabile, e, se proprio si vuole esagerare, un allaccio elettrico per caricare i propri dispositivi. Pochi elementi, tenuti assieme da connettivi logici mirati, in grado di sorreggere un intreccio ben sviluppato, seppur con una base contenutistica minima.
Se una sistemazione di questo genere richiede un investimento che oltrepassa le disponibilità economiche del giovane critico, è sufficiente individuare una piccola biblioteca, dotata di uno stanzino adoperabile abusivamente da mezzanotte all’alba: non un minuto di più non uno di meno, perché si potrebbe incorrere nelle occhiate indiscrete dei genitori che recuperano i figli al centro estivo o incappare nelle denunce a lanci di carte dei giocatori di briscola che calcano il territorio fino a tarda sera. Con la stessa cura impiegata per la scelta del titolo di un articolo, si evapora come un’ombra di passaggio, senza lasciar traccia della breve sosta notturna, tra gli sguardi di poliestere dei pupazzi del Muppet Show abbandonati all’ingresso.
Il laboratorio è pronto ad accogliere le anime sperdute per le calli veneziane, che, portandosi appresso lo stretto indispensabile per sopravvivere alla giornata, si tuffano tra i tasti del proprio computer tra i mirabolanti ricordi dello spettacolo della sera prima e i guizzi di follia dei troppi caffè assunti nel giro di un’ora. E poi un’intuizione, improvvisa, insperata: è l’arrivo di quella parola cercata tra i vicoli dei pensieri per giorni, evocata la sera prima di addormentarsi, cullata dai sogni di quelle poche ore di sonno consentite, e finalmente catturata appena prima che si dissolva. Conquistato l’incipit, si può cominciare a scrivere.