Il vaporetto attracca alla fermata Ferrovia, una turista americana osserva rapita la facciata della chiesa di San Simeon Piccolo e, voltandosi verso il compagno di viaggio, dice: “it always amazes me how can you obtain so much movement from rocks…”.
La percezione del movimento è frutto del gioco dei raggi di luce che colpiscono le superfici. L'alba bianca si inerpica da orizzonti remoti per investire i frontoni dei templi, generando ombre nere che si avvinghiano ai pertugi nascosti nella pietra; lì, dove il bagliore non riesce a insediarsi, ha principio la tridimensionalità, in un agitarsi di marmo e calcite. Luce e tenebra fanno danzare la roccia, galoppare i bassorilievi, adirare le statue degli idoli; fanno respirare le trifore veneziane, portali fulgidi incastonati sulle facciate dei palazzi. Giorno e notte, circolari, consentono la marcia di oscurità e chiarore, lo slancio delle sculture e la percezione dello scorrere del tempo.
Tempo e movimento, avviluppati nella realtà, divengono inscindibili e infiniti, scuotendo la vita e animando ciò che appare inorganico; Crono, all'origine dell’esistente, intaglia la struttura dell’eternità, organizza le stagioni, dà gli strumenti all’artista. Con dovizia e lentezza, lo scultore limerà i dettagli particolareggiati di vesti e drappeggi, di muscoli e vasi sanguigni, infondendo una scintilla capace di mettere in moto la pietra e di far volteggiare il calcare; così, il teatrante donerà l’azione a personaggi di carta altrimenti statici, esanimi, congelati in parole mai pronunciate.
Ilenia Cugis
Le luci sono ancora tutte accese, le sedie scricchiolano sotto il peso degli spettatori ancora intenti a sistemarsi o a scambiarsi due parole. Tim Crouch appare, sorridendo, contro i mattoni rossi della parete di fondo, ma quasi nessuno se ne accorge finché non inizia a parlare. Sarà solo lui per settanta minuti: non se ne va, nessun altro arriva. Porta un visore per la realtà virtuale davanti agli occhi, sostiene che lì dentro sta recitando la parte del Fool in una messa in scena del King Lear che, almeno per ora, solo lui può vedere. Racconta di un buio in sala che non c’è, di palchetti inesistenti molto più alti del soffitto della stanza, punta il dito indice a caso verso una sedia della platea reale e descrive degli spettatori immaginari. Qualcuno si riconosce nelle sue parole e ride, qualcuno non si riconosce, ma potrebbe e quindi ride lo stesso, se non altro del contrasto.
Sempre di soppiatto, senza che nessuno se ne accorga, l'autore-attore trasporta un centinaio di persone nel suo mondo, virtuale proprio come quello che un tempo Shakespeare e la sua compagnia costruivano estemporaneamente nel corso di ogni spettacolo, attraverso la scenografia verbale. Non c'è videoarte, niente di avanguardistico e quasi nulla di tecnologico in Truth's a Dog Must to Kennel e ben presto è lo stesso Tim Crouch a svelare che il visore è spento, che lo può togliere e rimettere senza che in sostanza cambi nulla, come una metafora. C'era da aspettarselo, in fondo, perché il teatro è proprio questo: un meraviglioso visore che esiste da millenni, una fantasia condivisa fra attori e spettatori che si fa realtà per poco più di un'ora. Tutto qui.
Però, proprio mentre mette in atto questo esperimento, mentre crea in chi guarda una prova del fatto che quest’arte rimane ciò è sempre stata, il Fool rivela di essere convinto che il teatro sia morto. Il suo cadavere ha mantenuto l’aspetto di un tempo, ma è privo di vita. Per lui solo un fetish necrofilo può aver spinto tutti gli spettatori a lasciare a casa televisioni e computer per raggiungere un luogo putrescente che, nel marcire, contamina chi vi entra in contatto e diffonde la sua cancrena. Così, scappa prima del Terzo Atto: non se la sente più di restare, con la sua spaventosa consapevolezza di pazzo. Allo stesso tempo dentro e fuori la tragedia, dentro e fuori l'Arsenale, è a fianco di re Lear e davanti al pubblico della Biennale Teatro. La sua maledizione è essere nel palazzo di Gloucester a complottare contro i tiranni e al tempo stesso comprendere che la sua esistenza è una leggenda e sapere come va a finire la storia: qualche morte finta, poi applausi, chiacchiericcio di folla e un patetico nulla. Questo Matto è convincente al punto che il pubblico capisce e vorrebbe protestare che il teatro è vivo, che solo il fatto di essere tutti insieme lì ne è la dimostrazione, ma viene interrotto ancora prima di poter cominciare: Tim Crouch è serissimo, nessuno deve mentire a sé stesso su questo, stiamo assistendo a un funerale. La sua disperazione è così profonda che quasi ci si convince di poter vedere i suoi occhi lucidi dentro il visore.
Lo spettacolo deve però continuare ed è a questo punto che la Sala d’Armi A dell’Arsenale sembra capovolgersi, mentre Crouch continua a raccontare ciò che osserva nella platea, e invitando il pubblico a guardare: una donna viene scortata fuori perché troppo visibilmente entusiasta, un uomo si sente male e non fa in tempo ad arrivare all’ambulanza prima che il suo cuore si fermi. Se il finale del King Lear, come quello del teatro per come lo conosciamo, è già scritto, lo stesso non vale per quello del pubblico, che ora ha il compito di cambiare le sorti di quel terribile mondo immaginario che tanto dice di amare.
Bolide | Deus ex machina di Elia Pangaro, vincitore quest’anno del bando internazionale della Biennale College Teatro dedicato alle Performance Site-specific, inizia quando i passanti che si aggirano in Fondamenta de l’Arsenal si stanno ancora muovendo (e per inciso, continueranno a farlo per tutto il tempo). È una benedizione, perché il contrasto tra il corpo del performer – immobile, in posizione eretta, in mezzo allo spazio – e il vorticare di persone attorno lancia un messaggio, ancora segreto e indecifrato: segna un attrito che chiede di essere guardato. La lunga osservazione induce però a una scoperta, produce una dislocazione, un ribaltamento di senso e percezione, forse un paradosso: è un corpo fermo eppure in movimento. Infatti, malgrado l’involucro esterno indichi la stasi, sotto l’epidermide, nelle fibre muscolari, il corpo dell’artista è attraversato da impulsi continui.
Si tratta di una vibrazione quasi impalpabile, ma che cambia la dinamica del suo stare nello spazio. Dietro la stasi apparente, c’è una figura pronta all’azione, è il masso nell’istante che precede la caduta, il motore di un’automobile che romba prima della partenza. L’immagine non è casuale, ma si aggancia al costume di scena del performer, che sembra appena uscito da una gara di motoGP, con tanto di pantaloni di pelle, maglia fiammeggiante decorata con le etichette degli sponsor e occhiali sportivi. Dietro di lui, una struttura in metallo coperta da un telone bianco suggerisce l’immaginario che verrà evocato nella performance: la statua Forme uniche della continuità nello spazio di Boccioni, disegnata con una bomboletta spray.
Nel 1910, alcuni futuristi firmano il loro Manifesto tecnico, nel quale si legge: “Il gesto per noi non sarà più un momento fermato del dinamismo universale: sarà, decisamente, la sensazione dinamica eternata come tale. Tutto si muove, tutto corre, tutto volge rapido.” La ricerca di Bolide | Deus ex machina evoca e restituisce l’eco di queste parole lontane più di un secolo, nel tentativo di esplorare il significato dell’accelerazione, fisica e mentale, individuale e sociale, visiva e cinetica che segna il nostro tempo. Una forza trascinante che sottomette le persone senza dire cosa sia e da dove venga, in uno sconcerto kafkiano, che annulla la possibilità di pensare una rivolta.
Il percorso drammaturgico della performance è a tratti prevedibile, perché lavora su temi ed elementi che vengono mostrati esplicitamente, senza camuffamenti o sfumature, assottigliando lo spazio della libera immaginazione. Bolidi sono le nostre esistenze a cui è chiesto di piombare, di precipitare tra le cose, confondersi con esse, scambiandosi gli attributi, diventare merce, farsi moneta di scambio. “Il tutto”, come afferma lo stesso Pangaro, “volto a una vendita, a un incasso, di chi/di cosa non si sa”. Quel che conta è solo la velocità, l’energia, il dinamismo, perché come dicono i futuristi: “Il dolore di un uomo è interessante (…) quanto quello di una lampada elettrica, che soffre, e spasima, e grida con le più strazianti espressioni di dolore”.
La performance prosegue, il corpo del personaggio interpretato dall’artista sembra un ingranaggio impazzito: inizia a ripiegarsi su sé stesso, a contorcersi, fra sussulti, strappi e ondulazioni, frammenti di urban dance, sempre rapidi, fulminei (Pangaro si è specializzato in tecniche urbane alla Nation of Human Arts Professional Dance School). Ne nasce un testa a testa con la musica elettronica e roboante curata da Robert Lagerman e Federico Tansella: quando i bassi si alzano il corpo rallenta, all’affievolirsi del suono la figura umana si elettrizza.
La dinamica master-slave (schiavo-padrone), qui accennata, si radicalizza con l’ingresso in scena della seconda artista, Polina Sonis: ha occhiali da sole con lenti metallizzate, giubbotto di pelle e stivali, anche lei in pieno stile bikercore. Questa seconda figura porta nello spazio un elemento che i futuristi non avevano ancora considerato, che esaspera l’accelerazione, la velocità e le reazioni istantanee. Sono i social media, nell’era dell’iper-esposizione alle immagini, dell’ossessione per gli schermi, fra scatti, reel e stories.
L’artista ha uno smartphone in mano, con il quale fotografa e filma l’uomo-macchina, riproponendo peraltro l’attività in cui è impegnata la maggior parte del pubblico attorno, in un gioco di rimandi tra realtà e finzione certo previsto, che allarga lo spazio della performance. La donna cattura l’immagine dell’altro performer da varie prospettive – davanti, destra, sinistra –, accerchiandolo. Tale girotondo assediante si interrompe quando la donna inizia a dettare i movimenti, ossia il copione che dovrà eseguire l’uomo: braccia e gambe oscillano avanti e indietro, a ritmo serrato, in una ripetizione asfissiante, che aggrega i due corpi in un unico meccanismo sferragliante, ma non c’è armonia, solo asservimento di un corpo-ingranaggio all’altro.
In queste movenze si annida proprio la postura fissata nell’immagine della statua di Boccioni ritratta sul telone che copre la struttura di metallo retrostante. All’interno di essa, al pari di una contemporanea gabbia futurista, viene costretto l’uomo alla fine della performance, quando sfinito, sarà ridotto a uno strisciare canino, continua preda dell’occhio-obiettivo della donna. Pangaro esce dalla trappola nel quale era stato rinchiuso e sfila dalla tasca un telefonino, modello primi anni Duemila, che scaraventa a terra, uscendo di scena. I reperti vengono raccolti in una busta da Sonis, come fossero le prove di una scena del crimine.
Lo spettatore del teatro tradizionale sa. Sa da dove entrare e attraversa una porta, sa come disporsi e si siede, sa verso cosa volgere l’attenzione e guarda di fronte. E se gli scappa la pipì, sa anche dove andare. Nulla insomma, nella fruizione tradizionale, è lasciato al caso.
Tutto ciò non capita mai nella performance: in quel caso, si procede per pochi indizi e grandi intuizioni. Bolide | Deus ex machina di Elia Pangaro diventa, in questo contesto, un’esperienza utile per enucleare gli indicatori che caratterizzano questa particolare forma d’arte performativa, che alla Biennale Teatro si declina ulteriormente nella pratica del site-specific.
A differenza di ciò che accade nel teatro tradizionale, nelle performance site-specific l’ispezione condotta dallo spettatore trascende la messinscena, anticipandola e durando ben oltre la fine di dell’opera, ed è ciò che c’è di più interessante in lavori di tale genere. Ci si guarda con molta discrezione a destra e a sinistra, i più accorti anche di dietro. In effetti, Pangaro e l’altra performer, Polina Sonis, potrebbero essere ovunque, e lo spettacolo, senza che me ne accorgessi, potrebbe addirittura essere già iniziato.
Nel migliore dei casi, poi, se il pubblico è consapevole e non vuole destare troppi sospetti sul ruolo particolare che ha nell’economia dell’evento, si veste secondo le usanze dello spettatore locale; quanto a Venezia, la maglia e il pantalone di cotone nero, l’occhiale spesso e il cappello con frontino in tinta, potrebbero suggerire che nei luoghi d’arte sia buona norma andarci in incognito, come se, da amici e da parenti, non fosse il caso di farsi vedere.
Dunque, assicurandoci di avere il look giusto per (auto-)riconoscerci come spettatori, tra gli astanti ci si inizia a guardare l’un l’altra. Bolide, comunque, ha a suo vantaggio la stagione attuale: essendo giugno e non potendo che circolare in città a piedi, era indubitabile che i due protagonisti della scena fossero proprio quelli diversamente abbigliati, che si presentano in vesti da motociclisti.
Eppure, non appena credevo di aver individuato tutti gli elementi compositivi dell’opera, si fa largo un’altra figura: non conforme alle sembianze del pubblico e più simile, per tenuta sportiva, a quelle dei performer, un runner entra a sua insaputa nel ruolo che, dopo qualche indugio, sono portata ad attribuirgli, chiedendomi se non sia anch’egli un attore. La stessa fine fa un’ulteriore presenza, seppur più discreta, che non colgo sino a che un critico teatrale, battendomi sulla spalla, non me la indica. Si tratta di un uomo su di un terrazzo. La diversità che lo esclude dalla platea viene dalla sua uniforme e dal suo piglio essenziali: con un petto smunto e una mutanda dall’elastico smollato, si compiace dei suoi fiori sotto il sole, con spirito serafico.
L’entrata in scena, loro malgrado, del corridore come dell’abitante, consente di sviluppare di più il discorso sul tema del performativo. Mi guardo. Capisco. L’unica cosa dissimile dalla naturalità del quotidiano sono io, lo spettatore-x, l’incognita, il ragno che tende i suoi fili fin dove vuole. Il site-specific è ovunque, ovunque lo si cerchi.
Nel tipico panico di chi vorrebbe che qualcuno dicesse che cos’è arte e cosa non lo è, i malinconici piangono le cornici d’oro, e altri, invece, le sedute rosse e il buio in scena. Quanto a me, rimango nell’equivoco e prendo a formulare la mia regola: il site-specific è una condizione, uno stato del quotidiano per cui un giorno, con molta naturalezza, un uomo in mutande e un runner si trovarono, senza saperlo, a contatto con l’aura di un artista.