Il chiaroscuro è la transizione tra un colore e un altro, raccoglie le sfumature nel mezzo, accompagna. Entrare a teatro è una forma di trapasso, un ingresso tra i contrasti. Ma varchiamo la soglia vera e propria quando si spengono le luci in sala, nell’attimo in cui lasciamo alle nostre spalle il fulgore che tutto sa, per concederci al buio. Ogni volta è un piccolo battesimo, calano le tenebre e per un attimo, nella penombra, sembra quasi di aver chiuso gli occhi. Quando oltrepassiamo quel portale stiamo – in qualche modo – firmando un contratto. Le regole del gioco sono chiare, e chi frequenta abitualmente questo regno ormai le ha imparate. Si compiono una serie di gesti piccoli e rituali: prendere posto, zittirsi (a meno che il contrario non sia richiesto dallo spettacolo, ovviamente), alla fine applaudire, battere le mani. E poi? E poi passare il confine una seconda volta, uscire da teatro nell’aria umida dell’estate veneziana. La separazione è il secondo momento di transizione, quando ancora si sentono nelle orecchie le parole dello spettacolo appena finito, e, serrando le palpebre, vediamo ancora la scena, il palco. Si cammina tra le pozze di luce dei lampioni e il buio sconfinato di calli e sottoporteghi, cercando di orientarsi mentre le gambe si riassestano alla normalità, mentre si abbandona quel luogo incantato, consci di poterci tornare. In fondo basta un biglietto.
Ginevra Zaretti
Una stanza possiede tre sole pareti; si calpesta un palco di legno rialzato, scuro; c’è un’idea o un’ideologia da trasmettere al pubblico, una domanda da porre, un’indagine da condurre. Si parla per assiomi: il teatro è un mezzo di comunicazione. Ed è stato un mass media, nonostante la difficoltà nell’identificare se lo sia ancora oggi, o se lo sia ovunque nel mondo; il suo pubblico e la sua missione paiono molto differenti, schiacciati dalla diffusione e dall'influenza delle piattaforme di streaming o di networking. Tuttavia, per secoli, è stato un dispositivo pedagogico e di propaganda e ha contribuito a formare l'opinione pubblica accanto alla stampa – prima –, e a radio, cinema e televisione, poi. Per una questione legata ai significati quotidiani delle parole,non è facile da immaginare, ma il teatro è stato caratterizzato dalla multimedialità sin dalla sua nascita: da sempre, infatti, unisce un medium visivo – le luci, l’attore, il costume, la scenografia –, a uno acustico, cioè la voce, la musica, i suoni d’ambiente. Anche a Venezia si percepisce quanto la multimedialità del teatro sia evidenziata da un gran numero di fattori. Innanzitutto, la parola scritta si trova in scena, non solo nei copioni; può essere proiettata sul fondale a caratteri cubitali, come accade in Elektra Unbound di Luanda Casella, e abbinarsi allo studio del design grafico (un esempio in questo senso è Food Court di Back to Back Theatre). L’audio ha un riscoperto ruolo centrale, che mette insieme una ricerca tecnica e compositiva, sociologica, semiotica e psicologica, sotto il cappello dei Sound Studies, come approfondito da Ginevra Zaretti in un recente articolo. Sulle scene di Biennale Teatro 2024, si sono esibiti numerosi musicisti di talento: sono ben cinque gli spettacoli-concerto di questa edizione: oltre al già citato Food Court, anche Cenere di Stefano Fortin con la regia di Giorgina Pi; Have a Good Day! di Vaiva Grainytė, Lina Lapelytė, Rugilė Barzdžiukaitė, Tre sorelle dei Muta Imago, Phobia di Öhrn / Radziszewski. La commistione di elementi audiovisivi, poi, ha un’influenza considerevole sulle rappresentazioni contemporanee, grazie alla rimediazione continua: nei primi tempi era stato il cinemaad attingere al teatro per sviluppare i propri linguaggi e le proprie narrative, ora è l’arte scenica a mostrare primi piani, dettagli o particolari, avvalendosi di macchine da presa e proiezioni, come accade in Blind Runner di Amir Reza Koohestani e in Creation del collettivo Gob Squad. Nondimeno, le arti visive hanno una ritrovata rilevanza sul contemporaneo, come prodotto materico di pittura e scultura: da un teatro povero sessantottino, si è ritornati a una ricerca di ricchezza e linguaggi, come è evidente in After All Springvilledi Miet Warlop o ancora in Phobia, dove sono riuniti dipinti, maschere e protesi artigianali. La fotografia, infine, si rinnova quale medium visuale da cui attingere: Ciro Gallorano in Crisalidi trae ispirazione dai lavori di Francesca Woodman e ne ricrea le immagini utilizzando la scenografia, l’inchiostro nero e il corpo delle performer. Fotografia, pittura, scultura, cinema, musica e scrittura sono quindi i media ai quali il teatro ha abituato il suo pubblico, ma, più di recente, esperimenti innovativi ricorrono alle piattaforme digitali per elaborare pièce interattive, a volte perduranti nel tempo. Si tratta di un nuovo tipo di rimediazione che utilizza i social network sia come fonte per le proprie ricerche che come dispositivo scenico, in una creazione “mistiforme” dai risultati plurivalenti – si è senz’altro aperta una possibilità di esplorazione nuova, sarà il tempo a stabilire se proficua o meno. Da non trascurare, invece, è il fatto che tali piattaforme siano gli spazi in cui si svolge gran parte della comunicazione odierna; qui, si trovano le foto degli spettacoli, i volantini, le pubblicità, le sinossi, i link a siti o articoli e le vite degli artisti, o almeno le loro facciate pubbliche. Un universo digitale da conoscere e imparare a utilizzare come alleato, con cautela ma senza timore: dall’antica Grecia a oggi il teatro è stato infatti innovatore in termini comunicativi e tecnologici, uno strumento per comprendere il presente attraverso un’analisi critica, allo stesso tempo pubblica e intima.
Sarà il suono malinconico del contrabbasso, accompagnato dal passo repentino del pianoforte, o la profondità delle percussioni; sarà il buio che invade il teatro, sarà l’atmosfera cupa, sarà l’aria densa, ma il battito del cuore va sempre più forte, il respiro si fa sempre più corto, le mani sudano, ogni spettatore seduto in platea si unisce a me in un’attesa estenuante. Inermi, attendiamo l’inizio dello spettacolo. Non uno qualsiasi. Siamo consapevoli che da lì a breve saremo di fronte a una presa di coscienza collettiva: una rappresentazione dove stereotipi, diversità, sessualità, diritti, abusi, umanità, tolleranza si ‘travestono’ da attori e salgono sul palco del Piccolo Arsenale, sotto il nome di Back to Back Theatre. Compagnia con sede a Geelong, Australia, da oltre tre decenni, il gruppo si impegna a instaurare relazioni tramite performance dall’animo punk rock, abbattendo i tabù sulla disuguaglianza sociale e sulla concezione di ‘normalità’ che risiede nell'immaginario collettivo. Back to Back – composta da attori portatori di deficit cognitivi, tra cui Mark Deans, Rita Halabarec, Nicki Holland, Sarah Mainwaring, Scott Price e Tamika Simpson, sotto la direzione artistica di Bruce Gladwin dal 1999 – per questo debutto in Italia consolida la sua reputazione con una drammaturgia che entra in contatto con temi della società attuale, tra sperimentazione e innovazione. Food Court (‘Corte del cibo’) è ambientato tra la sterilità di un ristorante asiatico e un bar di periferia, tra una fabbrica e una strada trafficata; ma il palco è vuoto, lascia spazio all’immaginazione. Gli attori giocano a intessere trame e riferimenti ai luoghi attraverso le parole del testo. Quelli in cui nascono le dinamiche in scena sono ambienti frequentati da tante persone, ma è la vita di una singola donna l’oggetto della narrazione: lei sottomessa agli abusi dell’altro, così debole, imprigionata in un corpo che non ha scelto, maldestra e goffa, troppo imbarazzante per la società. Giocato su biografia e finzione, seduzione, costrizione, potere, intenzioni malvagie e resilienza, Food Court offre ‘speranza’, all’interno di un fallimento della società contemporanea: è l’equivoco collettivo dell’essere umano, concentrato edegoriferito, che ci rende pronti a giudicare chiunque, tra false interpretazioni e comode rivisitazioni delle vite altrui. “Non temere: l'isola è piena di rumori, suoni e dolci melodie, che danno piacere e non fanno male. A volte mille strumenti tintinnanti mi ronzano intorno alle orecchie e a volte, nei sogni, mi sembrava che le nuvole si aprissero e riversassero ricchezze. Pronte a cadere su di me, tanto che quando mi svegliavo, piangevo per sognare di nuovo”. Una commovente poesia accarezza l’animo del pubblico: a pronunciarla è proprio la protagonista che ha subito le peggiori violenze, interpretata da Sarah Mainwaring. Come una presa di coscienza e (s)fiducia, brutale e affascinante, lo spettatore non si libera mai di una sensazione tesa e brutale. I Back to Back, vincitori del Leone D’Oro alla carriera, offrono un'importante opportunità e un punto di incontro tra artisti e pubblico, in un mondo in cui la presenza sul palco di attori con disabilità non dovrebbe essere vista come un atto straordinario o scandaloso. L’opera potrebbe risultare fastidiosa perché i “non portatori di disabilità” spesso e volentieri rimangono fermi nella concezione che persone con abilità non comuni alle nostre non possano svolgere ruoli o intraprendere brillanti carriere nel corso della loro vita; e risulta straordinaria in quanto i successi di individui con disfunzioni intellettive o corporee ci lasciano perplessi, quando dovremmo semplicemente accettare con dignità le diversità umane. Sono attori preparati, consapevoli, con la capacità di responsabilizzare il pubblico attraverso l’esplorazione di temi censurati: su tutti, quello della sessualità, mai preso in considerazione nella sfera della disabilità, in un momento in cui oggi si ritiene che ognuno di noi dovrebbe sentirsi libero di esprimere sentimenti e istinti. È una pièce necessaria in questo momento storico, in cui l’essere umano si sente alla deriva, perso e insicuro nel luogo in cui abita. Food Court è una sfida contro gli stereotipi e, se i Back to Back avrebbero potuto scegliere vari modi per parlare di un argomento così delicato, hanno invece usato l’arma più tagliente: la verità. Si tratta della verità più scomoda, che fa male agli occhi e fa sanguinare l’udito; Food Court, è ricco di provocazioni, una performance artisticamente audace. In questa edizione della Biennale Teatro, gli artisti australiani portano un format anti-sistema, promemoria di come avvenimenti brutali e violenti possano essere frequenti nelle vite di altri. È una riflessione dalla quale ci dobbiamo emotivamente riprendere. Idee e prospettive ampliano gli orizzonti dell’incomunicabilità per comprendere sfumature, di emozioni, difficoltà, ma soprattutto di normalità, ricordandoci che l’arte è l’alleata migliore per superare barriere e confini.
Nelle ultime giornate della Biennale Teatro, il duo Balucani/Arcuri affianca il Leone d’Oro nel portare il Festival verso la chiusura. A un anno di distanza dalla mise en lecturedi Addormentate, il testo vincitore del bando Drammaturgia under 40 (2022-2023) è pronto per essere messo in scena. Già prima del riconoscimento veneziano, Carolina Balucani si era fatta notare nel panorama della drammaturgia contemporanea con Regina Coeli, che le valse il premio Dante Cappelletti (2017), e ancor prima con Thyssen, scritto e interpretato da lei per la regia di Marco Plini (2015). Entrambi sono drammi per voci sole. La prima è quella di uomo alla cui identità di carcerato si sovrappone quella di figlio perduto; la seconda, invece, è la voce di un operaio di fabbrica che, affondando nelle proprie cavità drammatiche, giocando con l’acqua e le paperelle, fa emergere tematiche di lavoro e di rapporti coi propri capi. La sua scrittura è sempre acuta, assai emotiva, e i personaggi sono dedali in cui difficile è orientarsi. Rispetto ai testi precedenti, Addormentate segna un nuovo punto di partenza per la ricerca drammaturgica di Balucani che stavolta non sceglie ambientazioni reali ma fiabesche; e ciò pare offrirle l’occasione di esplorare in altro modo il dramma, e il sonno che in esso ne moltiplica i soggetti. Riguardo al “fiume in piena di parole”, con cui i personaggi punti e addormentati di Balucani si confessano aprendo nella notte i loro mondi, Arcuri afferma: “è impossibile immaginare davvero una scenografia per questo spettacolo perché bisognerebbe trasferire il mondo in scena”. Nel domandarsi quale sarà l’operazione registica con cui metterà in scena il testo, varrebbe la pena ricordare il ruolo che il fondatore dell’Accademia degli Artefatti riconosce alla parola. Lo spiegava in maniera approfondita dieci anni fa, alla 42a edizione del Festival, mentre portava in scena I, Caliban, il quarto studio shakespeariano su testo di Tim Crouch. In tale occasione, Arcuri ebbe modo di raccontare il motivo per cui venne introdotta la drammaturgia nel suo teatro e il rapporto politico che essa stringe con chi la recita. Tutto ebbe inizio nei primi anni Duemila: dopo dieci anni di performance, a fronte di eventi quali la caduta delle Torri Gemelle, l’irruzione della realtà rese insufficiente la sola ricerca sul corpo e impellente quella attorno al testo, attorno al pensiero. Da allora, iniziando con autori britannici quali Tim Crouch o Sarah Kane, l’attore di Arcuri, lungi dallo stringere un rapporto pedissequo con quanto ha da recitare, pronuncia dubitando e interviene “con la propria opinione all’interno di ciò che il testo lo costringe a dire, al fine di aprirlo e metterlo in discussione dall’interno”. Anche alla luce di una parola che nel suo teatro è storicamente messa in discussione e rivoltata, nulla ancora si può dire su come verrà trattata quella di Carolina Balucani. Solo, si legge tra le notizie e le anticipazioni, che sia “un esubero di vitalità”, in un bosco incandescente di addormentamenti e confessioni.