Con i paesaggi inquieti che dipinge di notte, attingendo a piene mani all’infanzia trascorsa nella provincia rurale del Capo Orientale, l’insegnante e auto-proclamata “sognatrice– immaginista” Gladys Mgudlandlu diventa l’artista visiva nera più insigne nel Sudafrica degli anni Sessanta. I suoi ritratti spesso raffigurano donne o ragazze del gruppo etnico xhosa, solitamente in coppia. Al posto delle figure in ombra che tipicamente accompagnano questi soggetti, tuttavia, una foschia bianca indica il freddo, per ripararsi dal quale si rannicchiano e si piegano le anziane signore del titolo. Forse essa indica anche ciò che l’artista considerava il “sacro e protettivo potere del bianco”, un colore che – come racconta alla sua biografa Elza Miles quando ricorda le fattorie della sua fanciullezza a Peddie – applicava alle cornici di porte e finestre. Un’idea di sacralità satura quest’opera, poco conosciuta, non datata e insolita, le cui ampie forme fanno pensare allo stile successivo di Mgudlandlu. Le due donne appaiono vestite con l’uniforme di quella che probabilmente è una chiesa AmaZioni. Sono osservate dalla prospettiva “a volo d’uccello” amata dall’artista, che si identificava profondamente con i volatili e le cui rappresentazioni di queste creature in coppie armoniose, come in The Oystercatchers (1964), sono evocate dalla simmetria estetica delle due donne e dal gesto concorde delle loro braccia.
L’opera di Gladys Mgudlandlu è esposta per la prima volta alla Biennale Arte.
—Ruth Ramsden-Karelse