La mostra Il latte dei sogni trova il suo fulcro in una sala sotterranea del Padiglione Centrale, dove la prima delle cinque capsule presenta una raccolta di opere di artiste delle avanguardie storiche, tra cui Eileen Agar, Leonora Carrington, Claude Cahun, Leonor Fini, Ithell Colquhoun, Loïs Mailou Jones, Carol Rama, Augusta Savage, Dorothea Tanning e Remedios Varo. Dalle opere di queste e altre artiste dei primi del Novecento – presentate in un ensemble ispirato alle mostre del Surrealismo – emerge un dominio del meraviglioso nel quale anatomie e identità sono trasformate seguendo le tracce di desideri di metamorfosi ed emancipazione.
Molte di queste linee di pensiero ritornano nelle opere di artiste e artisti di oggi esposte nelle sale del Padiglione Centrale: i corpi mutanti messi in scena da Aneta Grzeszykowska, Julia Phillips, Ovartaci, Christina Quarles, Shuvinai Ashoona, Sara Enrico, Birgit Jürgenssen e Andra Ursuţa immaginano nuove combinazioni di organico e artificiale, concepite sia come possibilità di reinvenzione del sé sia come inquietanti premonizioni di un futuro sempre più disumanizzato.
I rapporti che legano esseri umani e macchine sono analizzati in molte delle opere in mostra, come, ad esempio, negli esperimenti di Agnes Denes, Lillian Schwartz e Ulla Wiggen o nelle superfici-schermo di Dadamaino, Laura Grisi e Grazia Varisco, le cui opere sono raccolte in un’altra capsula dedicata all’Arte Programmata e all’astrazione cinetica degli anni Sessanta.
Le relazioni che intrecciano corpi e linguaggio sono al centro di un’ulteriore presentazione tematica ispirata alla mostra di Poesia Visiva e Concreta Materializzazione del linguaggio, allestita alla Biennale Arte 1978, una delle prime rassegne apertamente femministe nella storia dell’istituzione. La scrittura visiva e le poesie concrete di Mirella Bentivoglio, Tomaso Binga, Ilse Garnier, Giovanna Sandri e Mary Ellen Solt sono messe in dialogo con esperimenti di automatismo e scrittura medianica di, tra le altre, Eusapia Palladino, Georgiana Houghton e Josefa Tolrà, e con forme di scrittura femminile che spaziano dagli arazzi di Gisèle Prassinos alle micrografie di Unica Zürn.
Segni e linguaggi affiorano anche nelle opere di diverse artiste contemporanee quali Bronwyn Katz, Sable Elyse Smith, Amy Sillman e Charline von Heyl, mentre i quadri tipografici di Jacqueline Humphries sono messi in relazione con i grafemi di Carla Accardi e con il linguaggio-macchina che informa le opere di Charlotte Johannesson, Vera Molnár e Rosemarie Trockel.
In contrasto con questi scenari ipertecnologici, i quadri e gli assemblage di Paula Rego e Cecilia Vicuña inventano nuove simbiosi tra animali ed esseri umani, mentre Merikokeb Berhanu, Mrinalini Mukherjee, Simone Fattal e Alexandra Pirici tessono narrazioni nelle quali preoccupazioni ambientaliste e antiche divinità ctonie si combinano per creare nuove mitologie ecofemministe.
All’Arsenale l’esposizione si apre con l’opera dell’artista Belkis Ayón, che, influenzata da tradizioni afrocubane, descrive un’immaginaria comunità matriarcale. La riscoperta della dimensione mitopoietica dell’arte è apparente anche nelle grandi tele di Ficre Ghebreyesus e nelle visioni allucinate di Portia Zvavahera, nonché nelle composizioni allegoriche di Frantz Zéphirin e di Thaao Nguyen Phan, che nelle loro opere intrecciano storia, sogno e religione. Attingendo a saperi indigeni e sovvertendo stereotipi coloniali, l’artista argentino Gabriel Chaile presenta una nuova serie di sculture monumentali in argilla cruda che si ergono come idoli di una civiltà mesoamericana fantastica.
Molte artiste e artisti in mostra esaminano nuovi e complessi rapporti con la Terra e la natura, ipotizzando inedite possibilità di convivenza con altre specie e con l’ambiente. Il video di Eglė Budvytytė racconta di un gruppo di giovani persi nelle foreste della Lituania, mentre i personaggi nel nuovo video di Zheng Bo vivono in una comunione totale – anche sessuale – con la natura. Un simile senso di incanto meraviglioso ritorna nelle vedute innevate ricamate dall’artista Sami Britta Marakatt-Labba. La riscoperta di tradizioni millenarie si sovrappone a nuove forme di attivismo ecologista anche nelle opere di Sheroanawe Hakihiiwe e nelle composizioni oniriche di Jaider Esbell.
Al principio delle Corderie si colloca un’altra capsula storica, questa volta ispirata agli scritti dell’autrice di fantascienza Ursula K. Le Guin e alla sua teoria della narrazione che identifica la nascita della civiltà non nell’invenzione delle armi ma negli oggetti utili alla raccolta, al sostentamento e alla cura: borse, sacche e contenitori. In questa presentazione i carapaci ovoidali dell’artista surrealista Bridget Tichenor sono accostati alle sculture in gesso di Maria Bartuszová, alle sculture sospese di Ruth Asawa e alle creature ibride di Tecla Tofano. Queste opere storiche convivono accanto ai vasi antropomorfici di Magdalene Odundo e ai quadri di fisionomie concave di Pinaree Sanpitak, mentre la videoartista Saodat Ismailova racconta di celle di isolamento sotterranee che fungono da luoghi di fuga e spazi di meditazione.
L’artista colombiana Delcy Morelos, che nelle sue opere si ispira alle cosmologie delle popolazioni delle Ande e dell’Amazzonia amerindia, presenta una grande installazione ambientale nella quale costruisce un labirinto di terra. Molti altri artisti in mostra combinano posizioni politiche e ricerca sociale con progetti che rivisitano tradizioni locali, come nelle grandi tele di Prabhakar Pachpute dedicate alla devastazione ambientale provocata dall’industria mineraria in India, o nel video di Ali Cherri a proposito delle dighe costruite sul Nilo. Igshaan Adams infonde nell’astrazione delle sue composizioni in tessuto significati che spaziano da una riflessione sull’apartheid alla condizione di genere in Sudafrica, mentre Ibrahim El-Salahi racconta la sua esperienza con la malattia e i farmaci attraverso una pratica meditativa di disegni minuziosi e quotidiani.
La parte finale delle Corderie è introdotta dalla quinta e ultima capsula storica dedicata alla figura del cyborg. Questa presentazione riunisce artiste che nel corso del Novecento hanno immaginato nuove combinazioni tra l’umano e l’artificiale, creando gli avatar di un futuro postumano e postgender. Questa capsula include opere d’arte, artefatti e documenti di artiste di inizio Novecento tra cui la dadaista Elsa von Freytag-Loringhoven, le fotografe Bauhaus Marianne Brandt e Karla Grosch e le futuriste Alexandra Exter, Giannina Censi e Regina. In questa sezione, le sculture delicate di Anu Põder rappresentano corpi frammentati in contrasto con i monoliti di Louise Nevelson, le figure totemiche di Liliane Lijn, le macchine di Rebecca Horn e i robot dipinti di Kiki Kogelnik.
Attraversata la grande installazione diafana di Kapwani Kiwanga, nelle ultime campate delle Corderie la mostra prosegue con tonalità fredde e sintetiche, nelle quali la presenza umana è sempre più evanescente, sostituita da animali e creature ibride o robotiche. Le sculture biomorfe di Marguerite Humeau, ad esempio, ricordano esseri criogenici che si contrappongono ai monumentali esoscheletri di Teresa Solar. Raphaela Vogel descrive un mondo in cui gli animali prendono il sopravvento sull’uomo, mentre le sculture di Jes Fan usano materiali organici come melanina e latte materno per creare nuove culture batteriologiche.
Scenari apocalittici di cellule impazzite e incubi nucleari affiorano anche nei disegni di Tatsuo Ikeda e nelle installazioni di Mire Lee, animate dai movimenti concitati di una macchina che ricorda il sistema digestivo di un animale. Il nuovo video della pioniera del postumano Lynn Hershman Leeson celebra la nascita di organismi artificiali, mentre la coreana Geumhyung Jeong gioca con corpi ormai completamente robotici e componibili a piacimento.
Altre opere oscillano tra tecnologie obsolete e nuovi miraggi del futuro. Le fabbriche abbandonate e i macchinari fatiscenti di Zhenya Machneva trovano una nuova vita nelle installazioni di Monira Al Qadiri e Dora Budor che vibrano e roteano come macchine celibi. A chiudere questa infilata di meccanismi impazziti, una grande installazione di Barbara Kruger concepita appositamente per gli spazi delle Corderie combina slogan, poesia e linguaggi-oggetto in un crescendo di ipercomunicazione al quale fanno da contrasto le sculture silenziose di Robert Grosvenor, che svelano invece un mondo senza presenze umane. Oltre questo universo immobile cresce il grande giardino entropico di Precious Okoyomon, brulicante di nuova vita.
Negli spazi esterni dell’Arsenale completano la mostra i grandi interventi di Giulia Cenci, Virginia Overton, Solange Pessoa, Wu Tsang e Marianne Vitale, che accompagnano lo spettatore fino al Giardino delle Vergini, in una passeggiata tra forme animali, sculture organiche, rovine industriali e paesaggi stranianti.
La mostra Il latte dei sogni è stata concepita e realizzata in un periodo di grande instabilità e incertezza. La sua genesi ed esecuzione hanno coinciso con l’inizio e il continuo protrarsi della pandemia di Covid-19 che ha costretto La Biennale di Venezia a posticipare questa edizione di un anno, un evento che, sin dal 1895, si era verificato soltanto durante la Prima e la Seconda guerra mondiale. Che la mostra possa aprire è di per sé un fatto straordinario: non tanto il simbolo di una ritrovata normalità, quanto piuttosto il segno di uno sforzo collettivo che ha qualcosa di miracoloso.
Per la prima volta, forse sin dalle mostre del dopoguerra, la Direttrice Artistica non ha potuto vedere dal vivo molte delle opere in mostra né ha incontrato di persona la gran parte delle artiste e degli artisti inclusi. In questi interminabili mesi passati di fronte a uno schermo mi sono chiesta più volte quale fosse la responsabilità dell’Esposizione Internazionale d’Arte in questo momento storico e la risposta più semplice e sincera che mi sono riuscita a dare è che la Biennale assomiglia a tutto ciò di cui ci siamo dolorosamente privati in questi ultimi due anni: la libertà di incontrarsi con persone da tutto il mondo, la possibilità di viaggiare, la gioia di stare insieme, la pratica della differenza, della traduzione, dell’incomprensione e quella della comunione.
Il latte dei sogni non è una mostra sulla pandemia ma registra inevitabilmente le convulsioni dei nostri tempi. In questi momenti, come insegna la storia della Biennale di Venezia, l’arte e gli artisti ci aiutano a immaginare nuove forme di coesistenza e nuove, infinite possibilità di trasformazione.