Il tecnocapitalismo ci fa sfrecciare verso una società nativa digitale, eppure c’è ancora qualcosa di profondamente inquietante nell’interazione umano/non umano. La coreografa e artista performativa Geumhyung Jeong usa il proprio corpo e figure animatroniche, costruite a partire da pezzi autoprodotti, per sottolineare le relazioni perturbanti che si sono sviluppate fra persone e macchine. La sua opera occupa uno spazio intermedio: una familiarità con la tecnologia che genera un senso di disagio, una sensibilità verso gli oggetti che non è consensuale, una rivelazione bellissima e respingente di opposizione e similarità tecnosociali. Jeong ha intenzionalmente mantenuto una qualità dilettantistica, da gioco, quasi sperimentale nei suoi esseri ingegnerizzati. Il loro carattere ludico è evidenziato da un curioso assemblage di protesi. I “giocattoli” esposti sono robot autoprodotti dall’artista grazie a conoscenze nella programmazione di meccanismi e circuiti elettrici, in un processo da lei paragonato al cucire punto dopo punto. Se inizialmente possono sembrare robusti e funzionali, questi robot rivelano la loro fragile instabilità quando iniziano a muoversi. Jeong infonde nei suoi “giocattoli” una goffaggine che evoca nell’osservatore umano il desiderio di coccolarli e prendersene cura: crea così momenti di incontro fra l’umano e la macchina, che testano la nostra capacità di provare empatia per le entità non umane, quando queste sembrano avere bisogno del nostro aiuto.
Isabella Achenbach