Gli arazzi di Zhenya Machneva trasformano i fantasmi delle lucenti fantasie d’acciaio su cui doveva fondarsi la fortuna economica dell’Unione Sovietica in un universo misterioso e sconcertante. Ispirata da una visita alla fabbrica di apparecchiature telefoniche di Leningrado in cui suo nonno ha lavorato per quarant’anni, Machneva intreccia immagini di vetusti stabilimenti produttivi, paesaggi industriali e oggetti meccanici con il presente digitale. Creati su telai manuali, una pratica caratterizzata da un preciso lavoro artigianale, gli arazzi di Machneva si contrappongono alla velocità e all’efficienza delle tecnologie contemporanee, mentre rispecchiano l’etica del lavoro che per prima ha reso possibile l’industrializzazione. In opere come Elephant Head, Portrait e Totem (tutte del 2020), o A Dog (2021), gli omologhi umani e animali mettono in discussione l’idea di una tecnologia puramente dominata dalla logica. A Girl (2022) suggerisce una rappresaglia degli ibridi uomo-macchina immaginati dalle avanguardie dell’inizio del XX secolo. Anche in Echo (2021), opera ispirata da un forno che Machneva ha rinvenuto all’interno di un deposito ferroviario in disuso alla periferia di Budapest, l’artista costruisce una composizione simile a una maschera partendo da bulloni, guarnizioni e cavi serpeggianti. L’immagine di un automa cablato con un filo duttile sintetizza il gioco tra il processo decisamente low tech di Machneva e le immagini quasi meccaniche che questo produce.
Madeline Weisburg