Inaugura il Festival Krzysztof Warlikowski, Leone d’Oro alla carriera, con una novità per l’Italia: We are Leaving, adattamento di Suitcase Packers di Hanoch Levin, fra i maggiori autori di teatro israeliani. “La miglior messinscena di Warlikowski negli ultimi anni” secondo Le Monde, We are Leaving è uno spettacolo corale, intinto di umorismo nero che vira in tragedia, in cui l’andare verso un ipotetico mondo migliore che continuamente si impiglia in un “falso movimento”, diventa simbolo di una condizione umana. In scena una piccola comunità con le sue storie quotidiane fatte di risentimenti e tensioni pronte a esplodere, un mosaico di personaggi che Warlikowski blocca come in una sorta di “iperrealismoipnotico” in una coreografia di gesti, tic, posture.
Colpisce al cuore lo spettatore Kornél Mundruczó portando in scena un mondo di brutalità e prevaricazione che apre sugli abissi dell’uomo per interrogarsi su libertà e destino, bene e male. È Hard to be a God, in prima italiana alla Biennale con la compagnia indipendente Proton Theatre fondata nel 2009 dallo stesso Mundruczó, regista dal segno potente sia che affronti cinema teatro o lirica. Tutto si svolge all’interno di due camion per il trasporto merci posteggiati in una periferia, zona franca dove tutto può succedere, tra trafficanti di esseri umani, snuff movie e prostituzione. La macchina narrativa si mette in moto giocando sullo sfasamento percettivo dei diversi media abilmente incrociati dal regista ungherese e su colpi di scena che rovesciano improvvisamente situazione e prospettiva.
Il mondo degli ultimi è al centro anche dello spettacolo di Roberto Latini, artista che ha fatto del rapporto voce-parola-suono uno dei cardini della sua ricerca, ora in dialogo con l’impasto unico di un romanzo estremo di Giovanni Testori, In exitu. Alla teoria di personaggi randagi dell’hinterland milanese del poeta lombardo In exitu aggiunge il giovane tossico Riboldi Gino, colto negli ultimi, strazianti momenti vissuti nei bagni della Stazione Centrale di Milano. “In exitu è come una Pietà. La parabola parabolica vissuta da Riboldi Gino è quella di un povero Cristo tenuto in braccio da Madonne immaginate, respirate, disarticolate, nella fonetica di una dizione sollecitata fino all’imbarazzo tra suoni e senso, come fossero le parole a essere infine deposte dalla croce sulla quale Testori le ha inchiodate” (R. Latini).
È con il Leone d’Argento Kae Tempest che l’arte più antica della poesia, nella sua dimensione originaria di racconto orale, si trasforma in bruciante energia, una narratività necessaria e autentica che mescola la metrica della poesia ai ritmi rap. Poeta, autore per il teatro e di testi narrativi che hanno scalato le classifiche e raccolto premi, rapper e performer di affollatissimi reading, Kae Tempest, classe 1985, sarà a Venezia nell’esibizione live di The Book of Traps & Lessons in prima per l’Italia. “Kae Tempest tratta coraggiosamente della povertà, delle classi sociali, del consumismo – scrive il Guardian. In un modo che non solo evita le insidie e i rischi della banalità, ma addirittura rendendoli belli, attingendo alla mitologia antica e alla cadenza omiletica per raccontare storie quotidiane”.
Anche Thomas Ostermeier con lo spettacolo Qui a tué mon père sente l’esigenza di tornare all’essenza stessa del teatro, “all’uomo che parla a un gruppo di uomini che si è raccolto per ascoltarlo” (T. Ostermeier). Lo fa con un testo autobiografico affidato all’interpretazione dello stesso autore che poi lo ha ridotto per le scene, come in un gioco di specchi: è Édouard Louis, esploso sulla scena letteraria con Farla finita con Eddy Bellegueule. Il suo secondo romanzo, Qui a tué mon père è un atto di accusa con tanto di nomi e cognomi di quei politici e uomini di stato che hanno distrutto il welfare piegando corpo e dignità dei più fragili, gli esclusi dalla storia come suo padre, cresciuto in una realtà che è già condanna. “Le decisioni dei politici possono incidere sulla vita degli ultimi. Come avere un determinato corpo – nero, donna, transgender. Un corpo e il suo disfacimento che riflette la storia degli ultimi trent’anni in Francia” (E. Louis).
Un teatro che si fa canto dolente per Danio Manfredini, figura rara e appartata della scena contemporanea che pure ha influito su generazioni di attori, a Venezia autore e interprete accanto al musicista e polistrumentista Francesco Pini di Nel lago del cor. La suggestione dantesca del titolo allude allo sprofondare della memoria in quell’inferno sulla terra che sono stati i lager rievocati nello spettacolo. Con le parole di Primo Levi, Hannah Arendt, Zalmen Gradowski che Manfredini intreccia in una babele di lingue, immagini, canti per dire l’indicibile. Spettacolo che dedica “ai sopravvissuti, perché le loro parole sono state una guida” e come un “requiem a tutti coloro che sono morti senza lasciare traccia”.
L’interrogativo sulla vita che è anche interrogativo sull’identità è alla base di Altro stato firmato da Francesco Pititto e Maria Federica Maestri di Lenz Fondazione, capofila di una ricerca che fonde scrittura per immagini e creazione plastica dello spazio. Tratto da La vita è sogno di Calderón de la Barca, un autore che è una costante della ricerca della compagnia e ultima di una serie di riletture contemporanee di classici. Altro stato si presenta in forma di assolo interpretato dall’”attrice sensibile” Barbara Voghera, in cui vengono a convergere le figure del servo Clarino e quella del principe Sigismondo. Principe e servo si inseguono alla ricerca di una sola identità con l’unica certezza che “non c’è via di scampo dalla forza del destino e dal crudele fato”.
Cosa sia vero ai tempi della post verità è la domanda cruciale all’origine di The Mountain, ultimo lavoro di Agrupación Señor Serrano, compagnia premiata nel 2015 con il Leone d’Argento, ideatrice di straordinari dispositivi scenici che mescolano mondo virtuale e performance dal vivo, tecnologia quotidiana e modellini in scala, video proiezioni e immagini in tempo reale mentre diverse linee drammaturgiche si intersecano. E in questo caso sono: la prima spedizione sull’Everest tentata da Mallory nel 1924 da cui non tornerà indietro lasciando dubbi sul risultato; il panico suscitato da Orson Welles con il suo programma radiofonico La guerra dei mondi, anno 1938, primo esempio del potere di condizionamento dei media; Vladimir Putin che, come un maestro di cerimonie, parla soddisfatto di fiducia e di verità, riflette sul ruolo dei media di raccontare la storia… Il tutto fra giocatori di badminton che giocano a baseball, tanta neve, schermi mobili e una visione frammentata di ciò che accade in scena allo stesso modo in cui la realtà si presenta.
Autore di un teatro al grado zero, dove anche un paesaggio immobile può diventare spettacolo plasmato dal suono, Filippo Andreatta è “il regista più sperimentale che si sia incontrato da molti anni a questa parte” (copyright Franco Cordelli), tanto da riuscire a portare anche un libro di architettura in scena, il cult di Rem Koolhaas Delirious New York. Fondatore dell’Office for Human Theatre (OHT) nel 2008, Filippo Andreatta debutta a Venezia con un nuovo progetto in prima assoluta – musica di Davide Tomat – che, parafrasando Gertrude Stein, si intitola Un teatro è un teatro è un teatro è un teatro. “Uno spettacolo che sparisce. Si sottrae e non racconta nulla. Al centro del lavoro c’è un vuoto, un’assenza che permette l’emersione di qualcosa che conosciamo ma che non sappiamo più vedere. Privando il palco e la materia che lo abita di significati precostituiti, OHT omaggia il teatro per quello che è: un teatro è un teatro è un teatro è un teatro… Quinte, cieli, fondali, luci, americane, contrappesi; ogni elemento diventa una voce da ascoltare in purezza. Voci udibili perché senza parole. Esattamente come nel solfeggio dove le note si materializzano all’orecchio in se stesse: do-re-mi-fa-sol-la-si” (F. Andreatta).
Da una tradizione teatrale importante e vitale come quella ungherese arriva, oltre a Mundruczó, anche la coreografa Adrienn Hód, più volte vincitrice del Rudolf Laban Award e dal 2007 alla testa della giovane compagnia Hodworks, attorno al cui nucleo ruotano artisti multidisciplinari. È in totale libertà che Adrienn Hód (“Sull'altare dell'arte puoi fare cose proibite nella vita reale. L'arte è quindi un gioco, un alibi che ci rende liberi") decontestualizza spazio e movimento per ritrovare la radicale fisicità del corpo. Così nel suo ultimo lavoro, Sunday, tutti gli elementi dello spettacolo, coreografici e/o teatrali, immersi nell’aggressivo pulsare di una musica gabber, vengono riplasmati dai cinque interpreti in un'esperienza essenziale che afferra lo spettatore. “La domenica non è un giorno noioso di riposo, ma un tour di performance eccezionale. Cosa significa essere una ballerina oggi? Ballare è pericoloso? Cosa è immorale e cosa non lo è? Tutto è permesso. È tutto permesso?”
Infine, Paolo Costantini, vincitore della quarta edizione di Biennale College Registi presenterà, prodotto dalla stessa Biennale, Uno sguardo estraneo (ovvero come la felicità è diventata una pretesa assurda), che trova il suo punto di partenza in uno dei più famosi testi della scrittrice Premio Nobel Herta Müller, Oggi avrei preferito non incontrarmi, dove una donna senza nome, convocata da un regime dittatoriale, attraversa la città seduta su un tram e riflette. “Crediamo che l’atmosfera soffocante del testo – scrive Costantini - riesca a evocare il mondo in cui viviamo oggi. La frenesia della società e la pressione che esercita ha trasformato le modalità in cui si percepisce la propria vita. La dittatura politica è sostituita da una dittatura della frenesia del fare, in cui il tempo è sempre più contratto. Ci si ritrova intrappolati all’interno di gabbie nevrotiche auto generate, che si manifestano in mille forme diverse, ma che hanno come denominatore comune il rapporto con il tempo”.