Non sono poche le pietre preziose che il programma della Biennale Teatro regala al pubblico. La nostra redazione stringe i ranghi, supera l’inevitabile stanchezza, regge agli sbalzi climatici e si dedica agli spettacoli e agli eventi collaterali previsti in cartellone. Intercettiamo un filo conduttore tra le proposte sceniche: un’indagine sulla soggettività e sulla identità umana. Primo passo è il bellissimo Qui a tué mon père di Édouard Louis, con la regia di Thomas Ostermeier. A seguire un dialogo su Altro stato, il lavoro di Lenz Fondazione, e infine un report della tavola rotonda dedicata al rapporto tra teatro e psicoanalisi, con una particolare attenzione al rito.
Come quando il re radunava a corte i propri cavalieri, così la tavola rotonda del 7 luglio ha riunito alcuni punti di riferimento della scena italiana a confrontarsi e discutere su teatro, psicoterapia e rito. Entro tale vastità di temi, è emerso come preponderante un sottile filo rosso riguardante la ritualità: dove si origina questo fenomeno che sembra ormai scomparso nella società di oggi? Si può ritornare a una qualche forma di rito individuale o collettivo?
Il primo intervento di Vittorio Lingiardi (psichiatra, psicoanalista e professore universitario) ha portato alla luce la questione del corpo: in un momento storico in cui tutto è digitalizzato, tornare a una fisicità e alla presa di coscienza fisica è fondamentale. Il teatro è costituito da corpi, non solo di quelli degli attori in scena ma anche di coloro che vanno a vedere lo spettacolo. Claudio Longhi, attuale direttore del Piccolo Teatro di Milano, sviluppa il discorso parlando di ritualità del corpo e, citando Sanguineti – “ogni teatro è un teatro anatomico” –, continua a ragionare sul bisogno di fisicità in scena. Il relatore procede affermando che la dimensione del rito è pervasiva nella storia della rappresentazione dal vivo e ha una dimensione in questo senso fondativa.
Anche Danio Manfredini sottolinea la necessità di essere qualcosa di fisico, e non di etereo. Per lui, il teatro è una “trappola mortale” che lo cattura, lo stringe e lo costringe a concentrarsi su piccole parti di sé e dei personaggi. Il “suo” rito è proprio quello di entrare e uscire dall’interpretazione – e quindi dal teatro. Nel processo di immedesimazione l’attore è libero, è un funambolo senza rete di sicurezza, e tutto ciò può avvenire a prescindere da una dimensione collettiva.
Una voce fuori dal coro è quella Galatea Ranzi. L’attrice sottolinea che la mancanza di tempo nella nostra società impedisce di concedersi al rito. Il teatro non ha spazio per creare liberamente, è costretto a regole, orari, pochi giorni di prove: dunque non è più possibile provare a raggiungere quella dimensione primaria di sacralità.
Chiara Guidi, attrice, regista e cofondatrice della Socìetas Raffaello Sanzio, nel suo intervento, riconduce il rito alle origini sociali. Così, la discussione arriva a un punto cruciale: dal bisogno di ritorno alla fisicità sul piano individuale, si giunge alla dimensione collettiva, al rito sacro nato, in origine, per espellere il male dalla società e dall’umanità. Il rito viene tratteggiato come un’adesione personale a una dimensione comunitaria, perciò richiede un atto di fede, un trasporto emotivo.
Su questa tavola rotonda, essa stessa riconducibile a un rito collettivo e sociale, sembra aleggiare lo spirito di Antonin Artaud, e le sue parole riecheggiare nell’aria: “Il teatro è prima di tutto rituale e magico, non è una rappresentazione. È la vita stessa in ciò che ha di irrappresentabile”.
Il rito, quindi, non è dissimile dal teatro. Ha un inizio, uno svolgimento e una fine. La reiterazione del gesto porta a un’intimità altra che nell’arte scenica viene condivisa sul palco. L’artista si rende vulnerabile e in questo suo essere “nudo” fa sentire noi spettatori parte di quella purezza e semplicità che spesso dimentichiamo.
Il ritorno al rito, dunque, forse è ancora possibile proprio in questa dimensione: quella comunitaria del teatro.
“Il fatto che sia solo il figlio a parlare, ed esclusivamente lui, è una cosa violenta per entrambi”: il romanzo Qui a tué mon père di Édouard Louis, astro nascente della letteratura francese contemporanea, inizia così. Nello spettacolo diretto da Thomas Ostermeier questa frase non ha bisogno di essere inserita, perché tutti i gesti di Louis – anche interprete della piéce – parlano di tale violenza consapevole che viene dal linguaggio.
Il vocabolario dell’autore decide allora di riempirsi di definizioni, locuzioni che richiamano lo sguardo perché osservare, a volte, è un atto meno violento che parlare.
Appoggiandosi a una lingua fatta di sguardi, il protagonista ricostruisce il suo rapporto con il genitore, raccontando come la mascolinità e l’omofobia tossica abbiano segnato la sua infanzia; e si sofferma sull’impatto distruttivo che le politiche del lavoro hanno avuto sulla loro vita.
È la prima volta che Thomas Ostermeier dirige un attore singolo in una Biennale Teatro in cui i monologanti sono protagonisti. La scelta del regista tedesco cambia le carte in tavola.
Édouard Louis, infatti, non può che essere solo in scena, perché solo è di fronte a suo padre, mentre gli parla, gli si rivolge. Una scrivania di lavoro con un computer e una borraccia, una poltrona di pelle scura con sopra un plaid: una scena fatta di pochi elementi in cui movimenti sono misurati, come a tener conto di una invisibile, ma ingombrante presenza.
Il fondale è uno schermo sul quale si alternano immagini di strade a fotografie amatoriali, che segnano i momenti salienti dello spettacolo, cristallizzandoli in una dimensione profondamente intima. Sono scatti estemporanei che raccontano un romanzo di formazione al contrario, in cui il figlio descrive commosso la crescita intellettuale del genitore.
L’allestimento è inframezzato da coreografie tratte da intramontabili pezzi anni Novanta e gli esasperati movimenti di Louis, inizialmente fonte di divertito coinvolgimento da parte del pubblico, progressivamente cambiano di senso; inseriscono lo spettatore in una sfera di consapevolezza differente. Sono movimenti convulsi e precisi, quelli dell’interprete, che seguono in maniera pedissequa le parole delle canzoni; vengono ricalcati sulla gestualità di un bambino alla ricerca disperata dello sguardo del padre che nei suoi ricordi gira la testa, offeso dalle movenze del figlio.
Nella parte conclusiva, lo scritto di Louis si trasforma, i protagonisti e il tono cambiano, si passa a un capitolo diverso della storia. Ecco l’agognata domanda: chi ha ucciso mio padre? Ed Édouard punta il dito, come un esserino che, a otto anni, fa la spia alla mamma su chi ha rubato i biscotti dal barattolo.
Louis in scena, nel finale, si traveste da supereroe e diventa il paladino di cui il genitore ha bisogno: dopo aver indossato maschera e mantello, stende un filo da bucato e inizia ad appendere le fotografie dei nemici assieme agli organi del corpo smembrato del padre. Sono Jacques Chirac, Nicolas Sarkozy, François Hollande, Emmanuel Macron ad averlo ridotto a una larva, impossibilitato nella deambulazione e spogliato di ogni dignità, costretto a lavorare per fuggire ad ogni costo la definizione di “fannullone”. Ogni immagine, nel momento in cui viene appesa, è accompagnata da un lancio di petardi, la mossa segreta per distruggere i “cattivi”.
Qui a tué mon père realizza l’ideale compresenza dei due ruoli nell’attore-autore. Édouard Louis racconta la propria storia con un’aderenza fatta di urgenza e tenerezza, accompagnato dallo sguardo sapiente di Thomas Ostermeier che gli regala una cornice aperta e uno spazio di riflessione, più che la cornice di uno spettacolo. Dopo Il nemico del popolo, messo in scena nel 2013, il direttore della Schaubühne torna ad interrogare il pubblico del Teatro Goldoni, sperando che questa volta lo spettatore risponda e si esponga senza paura di sgretolare uno stantio rigore che il teatro sembra ancora dover imporre.
Altro stato è lo spettacolo portato in scena alla Biennale Teatro 2021 da Lenz Fondazione il 6 e il 7 luglio, tratto da La vita è sogno di Pedro Calderón de la Barca. Fa parte di una trilogia di assoli – gli altri due, realizzati nel 2020, sono Flowers like stars? e Hipògrifo violento –, frutto di un progetto dedicato al teatro dell’autore spagnolo.
Per analizzare e riflettere su questo lavoro, capace di mettere in scena un mondo rovesciato, una fuga dalla realtà, abbiamo scelto la forma del dialogo, forse la modalità di comprensione più capace di attivare una “fusione di orizzonti”, come dice Gadamer.
Le due voci dialoganti sono Francesca (F) e Alice (A).
F: Secondo te qual è l’“altro stato” che il titolo suggerisce e come lo ritroviamo nella messinscena?
A: L’altro stato è un mondo possibile, un’occasione per vivere una realtà ulteriore non accessibile normalmente nella quotidianità. Rappresenta il sogno che si attua, che diventa concretezza attraverso la definizione continua del confine esistente tra fantasia e realtà. Forse però non è solo questo l’“altro stato”…
F: Un “altro stato” possibile è quello che si ritrova nella mente umana: spunto di riflessione interessante che però avrebbe richiesto un approfondimento più accurato data la complessità della tematica. Come ci suggeriscono la scena iniziale e lo spettacolo nella sua interezza, l’attrice Barbara Voghera è sempre sottoposta allo sguardo della luce che, creando delle ombre sui muri e sui fondali, ci dà l’impressione di entrare dentro il suo mondo psicologico e mentale.
A: Sei d’accordo che ombre e luci siano una componente essenziale e suggestiva di Altro stato?
F: Assolutamente sì, la loro centralità emerge in particolar modo nella prima scena. Un velo inondato di luce blu divide a metà lo spazio. Lo spettatore vede l’ombra di un letto a castello e dell’attrice protagonista. Questo dipingere il luogo scenico con la luce è un artificio che procede per tutto lo spettacolo e serve a evidenziare i movimenti del corpo dell’attrice. Barbara Voghera e la sua ombra creano un duo dialogante attraverso le parole degli altri personaggi del testo di Calderón. Cosa ne pensi del fatto che ci sia una sola interprete a incarnare in scena le parole de La vita è sogno?
A: Il principe Sigismondo e il servo Clarino devono necessariamente convivere nell’unico corpo dell’“attrice sensibile”, tentando continuamente di raggiungere l’unità, di ottenere un ricongiungimento, un’unione capace di porre fine agli scontri e ai turbamenti che sconvolgono la mente umana. La presenza di queste due polarità proietta sulla scena, e rende così esplicita, una volontà umana che si ritrova dimidiata: da un lato vi è la consapevolezza della tragicità del nostro destino, il cui approdo è una morte inevitabile; dall’altro emerge il desiderio dell’uomo di sottrarsi a questo schema, creando una realtà ulteriore e libera dalle regole e dalle convenzioni tipiche della quotidianità.
Le parole de La vita è sogno assumono un significato ulteriore nel momento in cui vengono pronunciate da chi solitamente è costretto ai margini della società e che, proprio per questo motivo, cerca di trovare una propria dimensione collocata in un altrove ideale. Ma invece, cosa vuole dirci Lenz Fondazione con questo spettacolo? Quale idea di teatro si può desumere da Altro stato?
F: Maria Federica Maestri, regista, e Francesco Pititto, drammaturgo, vogliono portare in scena un modo nuovo di percepire il “diverso”. Per loro, il teatro non è un atto di condivisione di ciò che percepiamo come simile, ma la volontà di mostrare l’altro, qualcuno o qualcosa che va oltre noi stessi. L’immedesimazione infatti non richiede l’identificazione.
Lo spettacolo lascia nello spettatore la sensazione di aver assistito ad un sogno. Come ci suggerisce Calderón: “Cos'è la vita? Delirio. Cos'è la vita? Illusione, appena chimera ed ombra, e il massimo bene è un nulla, ché tutta la vita è sogno, e i sogni, sogni sono”.