Tema di questa Biennale Architettura è il suo titolo che è allo stesso tempo un titolo e una domanda: How will we live together? è una domanda aperta.
How: come, parla di approcci pratici e soluzioni concrete, sottolineando l’importanza del problem solving nel pensiero architettonico.
Will: esprime il tempo futuro e segnala uno sguardo rivolto al futuro ma anche la ricerca di visione e determinazione, attingendo alla forza dell’immaginario architettonico.
We: è la prima persona plurale e quindi inclusiva di altri popoli, di altre specie, che fa appello a una comprensione più empatica dell’architettura.
Live: significa non semplicemente esistere ma prosperare, fiorire, abitare ed esprimere la vita, attingendo all’intrinseco ottimismo dell’architettura.
Together: implica collettivi, spazi comuni, valori universali, evidenziando l’architettura come forma collettiva e forma di espressione collettiva.
?: indica una domanda aperta, non retorica, che cerca (molte) risposte, che celebra la pluralità dei valori in e attraverso l’architettura.
La domanda: How will we live together? è antica e allo stesso tempo urgente. I babilonesi la posero nel costruire la loro torre. L’ha posta Aristotele quando scriveva di politica. La sua risposta è stata “la città”. La posero le rivoluzioni francese e americana. Sullo sfondo tumultuoso dei primi anni Settanta del secolo scorso, Timmy Thomas lo implorò nella sua canzone Why Can’t We Live Together?
È senz’altro una questione tanto sociale e politica quanto spaziale. In tempi più recenti, con la rapida trasformazione delle norme sociali, la polarizzazione politica tra sinistra e destra, il cambiamento climatico e il crescente divario tra lavoro e capitale, la domanda diventa ancora più urgente e rilevante, e su scala diversa rispetto al passato. Parallelamente, la debolezza dei modelli politici proposti oggi ci costringe a mettere lo spazio al primo posto e, forse come Aristotele, a guardare al modo in cui l’architettura plasma l’abitazione per immaginare potenziali modelli di come potremmo vivere insieme.
Ogni generazione si sente costretta a porre questa domanda e a rispondere in un suo modo proprio. Oggi, a differenza delle precedenti generazioni guidate ideologicamente, sembra esserci consenso sul fatto che non esiste un’unica fonte dalla quale possa derivare una risposta. La pluralità delle fonti e la diversità delle risposte non farà che arricchire la nostra convivenza, non ostacolarla.
Poniamo questa domanda agli architetti perché non siamo soddisfatti delle risposte oggi offerte dalla politica. Nel contesto della Biennale Architettura poniamo questa domanda agli architetti perché crediamo che abbiano la capacità di dare risposte più stimolanti di quelle che la politica ha finora offerto in gran parte del mondo. La poniamo agli architetti perché hanno la grande abilità di attirare diversi attori ed esperti nel processo di progettazione e costruzione. La poniamo agli architetti perché noi, come architetti, ci preoccupiamo di dare forma agli spazi in cui le persone vivono insieme e perché spesso immaginiamo questi ambienti in modo diverso dalle norme sociali che li dettano.
In tal senso, ogni spazio che progettiamo abbraccia il contratto sociale voluto dallo spazio e al tempo stesso ne propone un’alternativa. Aspiriamo ad attuare il meglio del contratto sociale e a proporre alternative quando è possibile migliorarlo. Una casa unifamiliare può alla fine replicare i valori espliciti e le oppressioni implicite del modello di famiglia nucleare del secondo dopoguerra, ma abbiamo anche visto potenti esperimenti di architetti che hanno sfidato le gerarchie familiari della casa unifamiliare e le segregazioni di genere proponendo progetti e gradi di apertura alternativi.
Si spera che la domanda continui a spingerci fiduciosamente in avanti e, così facendo, a costruire sull’ottimismo che guida l’architettura e gli architetti. La nostra professione ha il compito di progettare spazi migliori per una vita migliore. La nostra sfida non è essere ottimisti o meno, in questo senso non abbiamo scelta. Piuttosto è sapere come siamo riusciti a condurre gli abitanti a una vita migliore attraverso le ‘immagini dialettiche’ che produciamo con l’architettura.
L’attuale pandemia globale ha senza dubbio reso la domanda posta da questa Biennale Architettura ancora più rilevante e appropriata, seppure in qualche modo ironica, visto l’isolamento imposto. Può senz’altro essere una coincidenza che il tema sia stato proposto pochi mesi prima della pandemia. Tuttavia, molte delle ragioni che inizialmente ci hanno portato a porre questa domanda – l’intensificarsi della crisi climatica, i massicci spostamenti di popolazione, le instabilità politiche in tutto il mondo e le crescenti disuguaglianze razziali, sociali ed economiche, tra le altre – ci hanno portato a questa pandemia e sono diventate ancora più rilevanti.