Via dell’Idrogeno n° 7. Edifici minimalisti votati al culto della funzionalità e della massimizzazione produttiva. A vista d’occhio ci sono serbatoi pieni di liquidi mortiferi, esalazioni di gas, scarti di lavorazioni manifatturiere. Ogni tanto si scorge dell’acqua. Ci ricorda che abbiamo lasciato Venezia da appena dieci minuti, anche se la sensazione è di essere arrivati in un’altra galassia. Nel mezzo di questo panorama lunare, un ex capannone, arcigno come una cattedrale, si converte in palcoscenico. Intorno alla struttura si trovano solo poche sterpaglie e la carcassa fantastica di una balena, residuo in un deposito di antichi impianti scenografici. Cancelli metallici blu elettrico si aprono e accolgono gli spettatori. Si entra, preparandosi a celebrare il rituale della finzione. Stride il contrasto di un mondo fittizio collocato in mezzo a colate di cemento. Veniamo a un tempo soffocati ed esaltati dal paradosso di questo iper-realismo. Anche Venezia aliena, ma in altro modo. Patria dei sogni, lascia affiorare dappertutto città invisibili, cullate nel loro riflesso marino. L’arte è di casa, una casa comoda e privilegiata. C’è una certa continuità tra Venezia e la Biennale, nella sospensione del reale, nel dimenticarsi del mondo. Questa volta Emerald è verde petrolio. Le sue acque sono inquinate e fetide. Il resto del Festival è lontano e della favola colorata portata all’Arsenale da Armando Punzo non resta nulla. L’ambientazione scelta da FC Bergman è grigia. Per arrivare, si attraversa la zona industriale. Qui l’attesa dello spettacolo, con rinfresco e convenevoli, risulta grottesca. È il giusto vestibolo per un universo scenico cinico e violentemente incomprensibile dove si consuma il sacrificio che aspettavamo: veniamo strappati del senso. Eppure, a spogliarci è una concretezza violenta. Qui non c’è spazio per sognare.
Teresa Canuto
Tre figure risorgono dalla morte, animate da sussulti e bisbigli: sono anime pesanti nelle loro grigie vesti, ondeggiano nello spazio come spiriti giunti da molto lontano, per raccontare una storia.
Arrivano da un posto glaciale, si espongono tramite monologhi troppo complessi per le loro menti annebbiate, cercando di esprimere un dolore profondo.
Debutta con questa immagine sospesa Cuspidi di Valerio Leoni, vincitore del bando Biennale College Teatro - Regia Under 35.
Uno spaccato sulle vite autonome – eppure tra loro intrinsecamente connesse – di tre differenti personaggi, presentati attraverso le proprie debolezze. Sono umani che, cadendo e arrancando, perseguono un chiaro obiettivo: rivendicare la validità del loro dolore, l’autenticità delle sfide condotte per affrontarlo, e il superamento della vergogna nel non riuscirci.
Dopo la loro “resurrezione”, questi tre spiriti iniziano a delineare, seppur vagamente, la trama del loro vissuto, iniziando a posizionare in autonomia gli elementi scenografici nello spazio circostante.
La scena, in perpetuo evolversi, è scarna ed essenziale: si compone di pannelli mobili sui quali vengono proiettate immagini-simbolo, aventi lo scopo di rendere la confusione mentale concretamente visibile. Sono connesse allegoricamente alle ossessioni dei tre caratteri, dei quali è possibile delineare (partendo dal sostegno multimediale che la scenografia offre, e dal testo potentissimo) un possibile profilo.
La prima è La polvere – una ragazza terrorizzata dall’idea di lasciare andare, lasciarsi andare. Conserva nel suo scrigno le reliquie della donna che era, e a queste si stringe, come se i detriti potessero bastare per soddisfare le mancanze e i vuoti ai quali il trascorrere del tempo costringe. Canta melodie fievoli e parla agli acari, tra pulviscoli danzanti, speranzosa che qualcuno la salvi. Aspetta impaziente, «arriveranno domani», esclama a gran voce, consolandosi. Ma i giorni si susseguono senza logica nel calendario di chi vive nell’eterno passato, e le attese riguardano nomi e volti che non esistono più. L’abbandono del proprio corpo, rinchiuso in una stanza a degradarsi come un oggetto, è per lei una culla che ondeggia a tempo con il ritmo placido della malinconia.
La seconda è L’urlo – una donna incapace di relazionarsi con l’altro. Si spacca come una boccetta di vetro sfuggita da mani disattente, si frantuma ma non chiede aiuto, si ricompone ogni volta più deforme, fino ad assumere sembianze indecifrabili. Cede, barcolla, si imbarazza della sua instabilità, ti rassicura: «ce la faccio». Fatica nell’esprimersi e il proferire una sola parola le richiede uno sforzo disumano.
Infine, terza, è Le scatole – l’uomo con l’ossessione per un ordine impossibile. Può catalogare, piegare, comprimere ed etichettare tutto – tranne sé stesso. La moltitudine di pensieri che non possono essere incasellati, standardizzati, denominati lo sconvolge. Cercherà di inserirsi negli spazi che usa per l’organizzazione dei suoi oggetti disanimati, desidererà «di venire stirato» affinché si appiattisca ogni sua imperfezione, ma scoprirà inutile ogni suo tentativo, seppur messo in atto con minuziosa attenzione.
Cosa unisce queste storie?
Una voce incerta, spezzata, che viene condivisa nello stile e nel modo da ciascun personaggio, come un testimone invisibile.
È proprio tramite la salda corporeità della tendenza assunta dal verbo che il monologo da individuale si rivela universale, non parlando più di qualcuno soltanto – uno tra tanti – ma intersecando tra loro testimonianze in apparenza incompatibili.
La polvere, la voce, le scatole: non possiamo separarli, perché un singolo grido non emergerebbe in un mondo di miliardi di data raccolti; si perderebbe e verrebbe soverchiato da stimoli mediatici sempre nuovi.
Per evadere dall’odierno labirinto delle informazioni continue, dove tutto permane ma affonda – sotterrato da cadaveri di notizie in continua pubblicazione –, occorre riavvolgere il “gomitolo” rosso dell’esperienza comune. Lo suggerisce lo stesso spettacolo: quando i rapporti umani vengono interrotti, quando lo scambio diviene impossibile, l’uomo si perde e il filo si spezza.
Cuspidi è l’Odissea dell’io liberatosi dalle costrizioni – autoinflitte e non – tramite il rifiuto di rimanere una pedina nella scacchiera delle convenzioni.
L’unico modo per preservarsi è rompere l’algoritmo: «non essere il proprio conto in banca», «non essere il proprio lavoro / quello che non si sa fare», «non essere un pedone un alfiere un cavallo».
Prima dell’atto conclusivo, viene rivelato un dettaglio importante: non hanno strillato, e l’ardere dei loro corpi è parso più freddo del previsto.
Davanti alle proiezioni delle proprie figure nude, tre ombre si spogliano.
Una luce calda le invita a raggiungerla. Forse, è qualcosa che brucia.
Het Land Not (La terra di Nod), spettacolo del collettivo FC Bergman, si apre nel silenzio ordinato di un paradiso: la Sala Rubens del Museo Reale di Belle Arti di Anversa, ricostruita abilmente nello spazio di un capannone nella zona industriale di Marghera.
Nella sala, la terra promessa in cui l’individuo ha trovato rifugio dalla solitudine e una possibile redenzione delle colpe, non esiste parola alcuna ma solo la bellezza statica di un altrove da cui rumori e linguaggio sono stati rigettati. Arrivano semmai ovattati da oltre la porta situata sul fondale, punto di contatto con l’esterno: Nod, appunto. Nod – che viene menzionata nel libro della Genesi come quel «luogo dove Caino fu esiliato dopo aver ucciso Abele» – è infatti esclusa dal palcoscenico e tale rimozione, percepita solo in un secondo momento, è una scelta scenografica talmente vistosa da sovrastare l’intera struttura.
In un qualunque giorno d’apertura del museo, come dei reali visitatori che cercano un momento di quiete, il nostro sguardo è rivolto alla parete in cui è appeso Il colpo di lancia, crocifissione fuori-misura dipinta da Rubens (1618 ca.). Attorno a essa si affaccendano i sorveglianti – riconoscibili dal vestiario – nel tentativo di misurare le dimensioni dell’opera per il restauro a cui devono sottoporla. Curatore, guardasala e turisti accedono allo spazio in una sfilata di ingressi. È una vitalità corporea, carnale e irriverente che invade lo spazio della stasi attraverso tragitti che si moltiplicano e ripetono, fino addirittura alla corsa nel museo che ricalca la celebre sequenza di Bande à part di Jean-Luc Godard, con la sua vitalità irruenta. Poi, variando grazie ai punti d’appoggio disseminati nella stanza, attraverso l’improvvisa comparsa di cavità nelle pareti si crea un controbilanciamento già intuibile dall’inizio dello spettacolo con l’inserimento di sketch comici che possono provocare il riso. Questi momenti sono in realtà atti-mancanti che mostrano la coscienza dell’impossibilità di compiere il proprio lavoro.
Si assiste dunque a una coreografia dello sgretolamento in cui il fallimento, inizialmente individuale, diventa infestante e inaggirabile: ne sono esempio la turista che scivola sul pavimento bagnato; oppure la manica della giacca impigliata nel gancio mentre il curatore cerca di misurare il quadro; e ancora l’idea di far saltare in aria la porta, paradossalmente troppo piccola per far passare la tela perché di umana dimensione. Ogni tentativo di resistenza è vano davanti a tanto radicamento e la via che riconduce alla realtà è l’unica percorribile. Infatti, a crollare a causa dell’esplosione non è solo la cornice superiore della porta – che diventerà “mensola-letto” di una prigione creata dalla luce – ma l’intera sala museale frana inevitabilmente. La predizione era già avverata, nel riferimento all'eucaristia, con il travaso del vino tra due calici a opera di un sorridente e misterioso uomo in smoking.
Durante lo spettacolo cambia anche l’impianto visivo: attraverso l’inserimento di elementi mobili – dalla distesa di teli su cui si cerca di nuotare alla tenda montata da un uomo morente che vi cerca rifugio –, esso assume quei tratti post-apocalittici tipici dei film catastrofisti a mostrare le condizioni in cui si abita Nod (dall’ebraico Eretz-Nod, che è la radice del verbo vagare). Una terra di coloro che, una volta abbandonato Dio, sono costretti a errare senza sosta in un limbo di violenza e fortezze in cui rinchiudersi a fine difensivo.
La parabola sulla dannazione risulta chiara nel momento stesso in cui il quadro di Rubens, staccato dalla parete, viene trascinato fuori dalla porta, illuminato da un fascio di luce angolare. Nessuno può ormai sfuggire alla sua personale Terra di Nod, in cui nessuna posa titanica è più assumibile. La rimozione del quadro è il punto di non ritorno.
Ed ecco che, in conclusione, rientra il medesimo uomo in smoking a servire l’ultimo pasto: una pagnotta, due piatti vuoti e gli stessi due calici di prima. Tuttavia, ora che uno dei due è pieno, mancano i convitati; e conseguentemente quella possibilità di salvezza garantita da un’identità secolarizzata.
Sulla Biennale Teatro di quest’anno sembra essersi schiantato uno dei tanti meteoriti delle narrazioni recenti. No, Venezia sta benissimo, non si è verificata nessuna estinzione alla Don’t look up e l’Anastasio che canta La fine del mondo può solo sognarsela per il momento. Tuttavia viene facile dimenticarsene quando ci si lascia coinvolgere, anche solo minimamente, dalle tante visioni apocalittiche che scandiscono il Festival. Pare che ci sia una fascinazione collettiva per il tema: non sono mai catastrofi di violenza e rabbia, ma fatte di silenzio – come nella “wasteland” museale finale evocata da FC Bergman o con l’annientamento della realtà intima dei personaggi di Cuspidi – che affondano nell’oblio o che invitano a pensare a un mondo migliore laddove l’umano si è marginalizzato. Sembra strano: fino a pochissimo tempo fa la maggior parte delle storie sulla fine, invece che trattare di qualche cataclisma ambientale inevitabile, era un pretesto per dare vita a mostruosità tanto aliene quanto umane con cui i sopravvissuti dovevano scontrarsi (vi ricordate i cannibali di The Road del recentemente scomparso Cormac McCarthy?). Innegabile come qualcosa sia successo proprio alla percezione dell’aberrante, del diverso da noi.
«A fine mermaid!» diceva Marylin Monroe del mostro della laguna in Quando la moglie è in vacanza (Billie Wilder, 1955): una tenera gentilezza che sembrava totalmente fuori contesto innanzi ai primi film horror, ma che inquadra un tipo di posizione assunta negli ultimi decenni. Prendiamo il caso di Elephant Man (1981) di David Lynch: certo, la prospettiva del popolino da “fuoco e forconi” fa da padrona, schernendo un corpo fino a disumanizzarlo. Ma c’è dell’altro: la maschera di carne del mostro lynchiano è percepita davvero come tale quando il grande pubblico non si sofferma sulle deformità del protagonista e impara ad apprezzarlo, salvandosi dalla propria grettezza. Il freak diventa così figura accudita, accettata, messa al centro di un processo di redenzione della società: non più creatura esotica da circo, ma rappresentazione di un tipo di fantastico che si conforma all’idea di una realtà sempre più frammentata, dove la somma di prospettive permette all’oggettività di aprirsi alla pluralità dei punti di vista.
Che si tratti del massiccio uso di narrazioni fantasy da parte dello spettatore contemporaneo (e il modo in cui risuonano negli immaginari quotidiani) o di quelle forme di immedesimazione finzionale che portano alla creazione di veri e propri feticci nerd, a delinearsi è una maniera diversa di costruire la propria autenticità. Quello di oggi è il fantastico della Nausicaa nella valle del vento (1984), film dello Studio Ghibli, dove ci si volge alla ricerca di una comunanza tra l’uomo e le creature figlie dell’apocalisse, ormai al centro del mondo. Un cambio radicale di prospettiva, allora, dove l’accettazione di un’identità alternativa arricchisce e amplia la collettività, costituendone una nuova: è una realtà dove sentirsi meno soli, dove immaginarsi va di pari passo al sentirsi riconosciuti.
«Credo alla futura soluzione di quei due stati, in apparenza così contraddittori, che sono il sogno e la realtà, in una specie di realtà assoluta, di surrealtà, se così si può dire»: se intendessimo il sogno di André Breton come “il fantastico” (nel senso di diverso complementare), non potremmo rivedere nelle sue parole una delle linee guida di questa Biennale Teatro?