Emerald, lo smeraldo, è una pietra che nei secoli ha accolto in sé una mappatura di nuclei narrativi da cui si sono generati miti e allegorie di portata collettiva. Nel tempo, è diventata un emblema che si apre a segni e raffigurazioni sempre nuove.
Tutto comincia con la ribellione di Lucifero: dopo aver sfidato la potenza divina ed essere stato cacciato dal suo posto, ha perso la corona e soprattutto lo smeraldo che stava al centro; una volta raccolta, la pietra è diventata la materia in cui viene intagliato il Graal, che poi passerà di mano in mano. Coppa simbolo dell’esilio terrestre, più avanti ancora sarà oggetto di desiderio del giovane Perceval che parte alla sua ricerca senza neanche sapere cosa fosse; nelle sue avventure in terre lontane, scoprirà che aprirsi all’altro e al meraviglioso offre la possibilità di rinegoziare il proprio sguardo e di compiere i primi passi in un percorso conoscitivo senza fine.
Come il giovane eroe, non ancora nominato cavaliere da Re Artù, anche noi spettatori in questa Biennale Teatro stiamo vagando tra i desideri e le visioni di performer, registi, artisti in cui è custodita la promessa di un rinnovamento teatrale e personale; e, con Perceval, ci chiediamo se potranno radicarsi nel tempo, creando nuove narrazioni del nostro modo di decifrare il mondo.
Martina Cimino
Il Festival che tutto sembra mostrare ed esporre nasconde qualcosa tra i libri e i cataloghi della Biblioteca dell’ASAC a Venezia. La Biennale non si compone solamente di spettacoli, performance site-specific e mise en lecture: infatti, celati agli occhi degli spettatori, ci sono anche i giovani artisti che stanno seguendo i numerosi workshop della Biennale College Teatro.
In particolare, all’ASAC, a dialogare in un laboratorio di scrittura e ricerca performativa sono otto registi e due dramaturg, con background del tutto differenti tra loro, e, di conseguenza, la possibilità di condividere conoscenze e interessi tra i più disparati. A seguirli è Armando Punzo, regista, drammaturgo, autore e attore Leone d’Oro della Biennale Teatro 2023. Dà il via alla “magia” della creazione senza fornire un tema per indirizzare l’andamento dei lavori, affinché il materiale di partenza – un progetto drammaturgico di ogni partecipante – e il suo ultimarsi vengano modellati dal flusso di idee, spunti e stimoli che il laboratorio offre.
Dopo aver seguito le giornate di prove dello spettacolo Naturae con l’intera Compagnia della Fortezza, i partecipanti al workshop hanno messo mano alle proprie proposte, presentando all’intero gruppo un progetto personale, pronto ad essere scolpito.
I dramaturg offrono suggerimenti ed esercizi mirati ad allenare la scrittura e il suo evolversi, per far sì che la visione di ciascun regista si concretizzi in testo: partendo unicamente da una sequenza di linee essenziali, tutte coniugate al più semplice dei verbi – il presente indicativo –, si inizia a lavorare sulla formulazione di una catena di azioni e reazioni, che andranno a costituire la possibile traccia di un dialogo o la descrizione di una scena.
Le prove, sull’esempio di quella citata, mirano al raggiungimento di una connessione tra scrittura e visione, tra concretezza e sogno, emozione. L’obiettivo è dunque definire, pulire, per arrivare al nocciolo di un’innovazione, cancellando le possibili contraddizioni. Ma, per farlo, occorre percorrere una strada ardua, talvolta non immediatamente comprensibile, al punto da mettere in crisi. Il turbamento può derivare da un ostacolo, o dall’incapacità di esprimere una visione, ma è proprio il subitaneo disfacimento delle certezze – sottolinea Punzo – il punto dal quale partire.
Perché il momento di “crollo” rende maggiormente sensibili agli stimoli, cioè al vagare della mente e al vedere, davvero, cosa gli altri comunichino, e cosa noi vogliamo dire. È dal conflitto che l’intuizione emerge, e questo scontro, nel workshop di regia e drammaturgia, non è solo interiore: è anche orizzontale, rende partecipe o nasce con l’altro.
«Non credi sia bello pensare che non dipendiamo soltanto da noi stessi e dalla nostra volontà, ma anche dai sogni degli altri?», è la citazione-cardine della presentazione del workshop. Racchiude pienamente l’evolversi umano, collante di varie individualità, nelle quali tutti possono sprofondare, per entrare nella propria.
Non è sicuramente un iter progettuale convenzionale: ha tutto della metodologia registica di Armando Punzo, che non si fonda su un percorso di studi accademico, ma deriva dall’insoddisfazione e dalla mancanza di libertà, è inquietudine che genera.
Per questo eviterei di definire categoricamente una direzione verso la quale i lavori dovrebbero vertere: sono esposti all’influsso della sperimentazione, e in continuo accrescimento. Le attività messe in atto nel corso di questa settimana di laboratorio danno prova del coraggio e della prontezza di chi, mettendo a nudo i disegni della propria mente, è pronto a sconvolgersi, in favore di una rivoluzione possibile.
«La mia mente ha preso una direzione completamente folle» dice un partecipante, al termine di una “messa in scena” realizzata dall’intero gruppo per far sì che l’immagine di uno dei testi prodotti si concretasse fisicamente. «Auguratelo», è la risposta di Punzo.
La perfetta conclusione di un percorso che proviene dall’io, si espande per essere valutato da più punti di vista, e all’interiorità ritorna arricchito, per crescere e ultimarsi nella migliore delle forme possibili: quella che mostra chiaramente l’obiettivo perseguito dall’autore, e il suo raggiungimento.
È l’unica certezza che abbiamo assistendo alla prima del testo vincitore del Bando Biennale College Teatro - Drammaturgia Under 40 (2021-22) di Giacomo Garaffoni, affidato alla regia di Federica Rosellini: Veronica è morta. Non si sa come, quando né perché. La sua morte è già successa, si tratta di gestire questo lutto. Dieci donne cercano di spiegarne la scomparsa in un susseguirsi di voci: le registrazioni analogiche delle sue ultime ore di vita, il tentativo dei medici di rianimarla con il defibrillatore e le loro orazioni funebri.
Tutto ciò viene realizzato attraverso una decostruzione di segni che diventa la metodologia con cui è impostata la performance.
Un primo elemento messo dichiaratamente in discussione nel lavoro è la forma della tragedia classica: dalla struttura sono eliminati gli Episodi, restano il Parodo e gli Stasimi, mentre l’Esodo viene sostituito da un Epilogo. Questo apre a una forma di ibridazione tra la tradizione e il contemporaneo che è visibile già fin dall’inizio.
Il testo di Garaffoni rimanda al mito di Orfeo ed Euridice, prima eco riconoscibile nello spettacolo. In scena è presente, infatti, un possibile Orfeo, la cui immagine viene creata a partire dalle sembianze femminili di Rosellini, che modifica la sua figura con gesti quali tagliarsi le punte dei capelli e truccarsi il volto, a creare con una “maschera” con barba e baffi. È un corpo che nasce da una sovrapposizione di segni, inizialmente solo visivi, che si inseriscono all’interno di connotazioni fisiche che potrebbero ricordare statue neoclassiche; rimandano agli standard di bellezza contemporanei tipici di una certa estetica codificabile come “light academia”.
Tuttavia, alla storia di Orfeo che ha perso Euridice si sovrappone la morte di una donna estranea al mito, Veronica appunto. Chissà se le sue fattezze fisiche sono quelle della femminilità “fotografata” nell’incipit della stessa Rosellini, immobile sul palcoscenico prima che compiesse quei gesti di modifica di sé. Mancando, come si è accennato, gli episodi della tragedia classica, sembra non esserci azione: ma questa si rivela negli stasimi – i momenti di commento del coro, in questo caso solo sonori – e attraverso una partitura vocale che assume il compito delle note di regia. Spesso però il significato del racconto viene bloccato sul nascere per dare spazio a una sonorità indistinta. Si crea così un flusso costante ma sempre al limite del frammento, dove la parola è contaminata da onomatopee, vocalizzi, respiri, battiti e versi, in una continua ricerca di un linguaggio prenatale e ancestrale che può provare a esprimere il dolore di un lutto. E se Carmelo Bene costruiva i propri spettacoli attraverso l’uso di dispositivi tecnici del suono in un contaminarsi di voci/eco e silenzi, qui questa sovrapposizione viene realizzata in senso orizzontale: giustapponendo e accostando all’italiano lingue diverse (francese, russo) e un magma sonoro, dove la parola trova la propria origine e si estende grazie a una drammaturgia generata da campionamenti analogici, suoni in loop, registrazioni.
La dimensione collettiva – personificata dalle 5 performer presenti in scena – è fondamentale per capire lo spettacolo poiché queste figure che vengono chiamate “mogli”. Pur vivendo a stretto contatto tra loro e partecipando empaticamente della morte di Veronica, non riescono a fermare una memoria e a trasmetterla. E in una simile impossibilità sono chiare le tante menzioni al registratore che, fisicamente in scena tra le mani dello pseudo-Orfeo, viene però indicato come strumento in grado di custodirne il ricordo solo nel racconto. C’è dunque una non-aderenza tra scena e voci che indica come si tratti di una memoria incapace di esistere, anche quando l’espressione del dolore è possibile. Orfeo, infatti, si trova a ripercorrere compulsivamente la propria sofferenza in cortocircuiti vocali: conta disordinatamente le scariche elettriche del defibrillatore, ripete pezzi delle orazioni funebri e frammenti delle registrazioni, urla.
Verso la metà della performance c’è però un momento in cui questa non-aderenza tra voce e scena inizia a chiarirsi e la riflessione sull’elaborazione del lutto non si concentra più su un’impossibilità del dire ma diventa anche fisica. Si assiste, qui, a un’interazione con lo spazio scenico e la scenografia, formata da una parete da arrampicata fino a quel momento in penombra. Le performer, dopo essersi spogliate, iniziano la scalata, liberando quelle energie fisiche che si erano accumulate durante le prime fasi del lavoro. La scena cardine di questa liberazione è il rito di accoppiamento che lo pseudo-Orfeo ha con una delle donne e che porterà alla creazione di una nuova vita, una nuova Veronica: è il momento di catarsi finale della tragedia, tempo per ricostituire un’identità familiare e collettiva.
«When a play begins, the entire audience knows that what’s about to happen isn’t true. Everything is going to be fiction»: sono le parole che aprono El imagen interior (2022) de El conde de Torrefiel, compagnia fondata da Tanya Beyeler e Pablo Gisbert che nei prossimi giorni sarà ospite della Biennale Teatro 2023. Lo schermo, cuore della maggior parte dei loro spettacoli, è nero, privo di immagine, utile alla sola proiezione di sottotitoli che riflettono su cosa possa essere effettivamente proveniente dalla realtà in un contesto artistico: a emergere è gradualmente una prospettiva che trova forza propulsiva in quella capacità propria del post-mediale di mascherare, saturare e nascondere. E, perché no, di disintossicarci – almeno per il tempo di uno spettacolo – del bisogno di reale che imperversa oggi sulla scena come sulla vita.
Quella de El conde de Torrefiel è una forma di ribellione: ma a cosa? E qual è l’urgenza di creare questa cesura tra l’analisi dei linguaggi mediali e il dato concreto da cui spesso si parte per una creazione artistica? Proviamo a ragionarci con Jafar Panahi, maestro del meta-cinema del nostro tempo. Gli orsi non esistono (2022) racconta la storia di una coppia che vorrebbe scappare dall’Iran ma non può, perché lui, dissidente, potrebbe non ottenere il visto, e la compagna non vuole abbandonarlo. L’attacco del film parte da un litigio della coppia per le strade di Teheran. Ma subito dopo l’inquadratura si allarga e veniamo colpiti da una rivelazione: si scopre che tutta la scena, in realtà, è stata costruita all’interno di un set cinematografico; e segue addirittura l’aiuto-regista che la taglia con secchezza, seguendo le precise istruzioni di Panahi via Skype (i picchi emotivi sono troppo forzati, gli occhi della protagonista dovrebbero muoversi in un altro modo…). Eppure, la coppia stava inscenando la sua vita reale; Panahi interpreta quindi un sé stesso che, venuto a conoscenza delle vicissitudini di due persone straziate dal non riuscire ad avere i documenti, sceglie di mostrarne la condizione raffinandola, corrompendone la veridicità, mettendo in scena la messinscena stessa implicita nei meccanismi di rappresentazione (anche e tanto più quando si tratta di una storia vera).
Nota bene: Panahi, da regista e personaggio de Gli orsi non esistono, sta costruendo una visione complessa quanto limpidissima del suo meta-cinema. Lo fa proponendo un film di denuncia sprezzante nei confronti dell’indulgenza degli artisti di fronte al tentativo di documentare un evento: come può, del resto, un’opera politicamente votata a una forma di sensibilizzazione, concentrarsi sulla precisione delle inquadrature e sulla pulizia degli sguardi in camera, anche di fronte alla tragedia?
Affiora un possibile cambio di prospettiva: il soggetto dell’opera non è più quanto viene narrato ma diventa la tecnica della narrazione stessa. La realtà è deformata da una lente a mo’ di reality, di cui però spesso non si tiene conto. Così come non vediamo che una storia “vera” in teatro come sul grande schermo è il frutto di un gioco di inquadrature: che modellano il tempo di un’opera; che lavorano sui solchi del passato, donando a essi la nuova luce; che si danno la consegna di non farsi riconoscere. E dunque mascherano, saturano, nascondono.
Più un regista si concentra sulla necessità di mettere a fuoco “lo strumento”, più aumenta il rischio che la funzione documentale evapori. La verità diventa come reversibile: non è più strettamente legata a voci e cicatrici di chi carica sulle proprie spalle il peso della storia, ma diventa alla portata di registi e attori tramite reenactment, interpretazioni, sdoppiamenti di personalità, e così via. Ne consegue un eccesso di realtà: il tentativo di instillare in ogni aspetto di film e spettacoli – anche in quelli smaccatamente finzionali – un’origine dal fatto “accaduto per davvero” che quasi paradossalmente ne riduce l’autenticità, atrofizzandone la portata. Ma viceversa anche la riflessione sul post-mediale viene profondamente compromessa: la sua forza infatti viene spesso offuscata dall’ingombranza dei temi trattati.
Forse, nella scissione tra questi due livelli – già ravvisata nel lavoro di El conde de Torrefiel – è possibile intravvedere una ri-valorizzazione di entrambi. Su fronti completamente diversi, per certi versi opposti, lo mostra anche Naturae di Armando Punzo: la presenza dei media qui è minima e l’artista concentra i suoi sforzi nel portare in scena qualcosa a cui appartiene, proponendo una vertigine di immagini capace di restituire la totalità della sua esperienza del regista tra le mura della Fortezza.