fbpx Biennale Teatro 2023 | Giorno 10: La critica, ovvero cuore, cervello e coraggio
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Biennale College Teatro

Workshop di critica teatrale

di Andrea Porcheddu con Roberta Ferraresi
Giorno 10: La critica, ovvero cuore, cervello e coraggio

Ritornare da uno spettacolo e sentire di essere spinti a scriverne. Provare una sorta di smania di ricercare, leggere, riflettere su quanto si è visto. Ma la parte interessante inizia quando ci chiediamo perché lo facciamo?. Nel workshop di critica di questa Biennale Teatro, ci stiamo interrogando e confrontando continuamente sulle ragioni e i modi d’esistenza della scrittura analitica sul teatro. Oltre alle idee personali, pensiamo alle problematiche che percepiamo esistere e persistere in questa piccola selva. La ricetta, ovviamente, non l’abbiamo trovata – non una per lo meno –, e alcune formule e idee  personali sono in via di costruzione. Tuttavia, pare emergano, nella riflessione, alcune condizioni necessarie. Ci proiettiamo volentieri, allora, seguendo la traccia indicata dai direttori Stefano Ricci e Gianni Forte, in quella ricerca (e custodia) da parte dello Spaventapasseri, dell’Uomo di latta e del Leone de Il mago di Oz, rispettivamente del proprio cervello, cuore e coraggio. Tre elementi che sono per noi presupposti attesi e nodali di un atto di scrittura che riguarda ogni rappresentazione. Secondo il critico Simone Nebbia, tre M caratterizzano la critica: Mestiere, Missione e Malattia. Quest’ultima, in particolare, mi pare inglobare tutta la questione. Bisogna ammalarsi sanamente del teatro, la cui esperienza va accolta e prolungata attraverso la scrittura critica. Una scrittura che credo debba prendere contatto con la generosità e il dubbio, e forse essere meno associata alla glorificazione o alla demolizione. Gli accompagnatori di Dorothy, in effetti, non portano con sé anche altro, rispetto a ciò che stavano cercando dopo l’incontro con Oz?

Sofia Bordieri

All’inizio degli anni Settanta, negli Stati Uniti, le donne che lavoravano come strumentiste nelle orchestre erano pari al 5%. A far cambiare quella percentuale, sarà sufficiente un piccolo stratagemma. Con la sola introduzione delle audizioni cieche – ovvero la presenza di una tenda nera tra musicista e commissione –, la possibilità che una donna potesse venire ingaggiata aumenterà del 50%. Per migliorare le sorti lavorative e personali di un’intera categoria, basta una tenda nera.
Molte volte crediamo di prestare attenzione e non stiamo realmente guardando. Proiettiamo sul mondo le nostre aspettative, credenze e aspirazioni, scorciatoie di pensiero che, più che semplificare la vita, la complicano. «The unwanting soul / sees what’s hidden / and the ever-wanting / soul sees only what it wants», recita il Tao Te Ching. E poco prima:  «Heaven and earth begin in the unnamed». Se, da un lato, dare i nomi alle cose fornisce una mappa di navigazione, dall’altro ingabbia la nostra percezione del reale all’interno di schemi associativi, non sempre tra i più nobili e utili a cambiare, migliorare, evolvere.
È su questo contrasto che si gioca la scommessa di Boris Nikitin. La sua ricerca esplora le sfumature, le aree liminali a cavallo tra realtà e finzione. «Mi interessava questa dissolvenza incrociata: un personaggio che sarebbe stato se stesso e non, allo stesso tempo», dice a proposito del suo Hamlet durante la messa in scena di Versuch über das Sterben, di cui è autore e interprete. La riscrittura del testo shakespeariano si arricchisce dunque della vita del performer, accavalla il piano dell’opera con quello biografico. Il reale amplifica la finzione e viceversa. D’altronde, cosa assicura compattezza e solidità al reale, quale regime sancisce l’univocità dell’esperienza? Continua l’artista: «Immagino spesso la realtà come un pettegolezzo che viene raccontato più volte finchè diventa attendibile e nessuno sa da dove viene. O come un testo che tutti abbiamo imparato a memoria».
Nikitin sostiene che questa presa di coscienza sia stata graduale e abbia avuto a che vedere con l’esperienza e l’accettazione della propria omosessualità, di contro a uno stato di cose che richiedeva la mutilazione della sua identità a favore del quieto vivere. Rendersi conto che il reale non è concluso e inevitabile – che può non-essere – lo rende plasmabile, dice. E lo strumento designato per appropriarsi della propria efficacia è “il falso”. Cos’è questo falso? Cosa permette di ridisegnare la mappa, riscrivere la narrazione? Forse può aiutarci la nostra, di “tenda nera”: come un gioco di prestigio, possiamo far sì che, al calar di sipario a fine spettacolo, la finzione sia stata più vera del vero; o meglio, più vera del falso, del pettegolezzo, della propaganda che compongono il quotidiano.
Eppure, ci sono dei confini tra realtà e finzione. Se qualcuno chiedesse con insistenza di immaginare un elefante rosa, non apparirebbe nella stanza neppure con tutta la potenza della volontà. I nostri corpi hanno necessità fisiche, la forza di gravità ci tiene a terra, le leggi dicono quali sono i nostri diritti e doveri. È vero. In parte. Anche le leggi assecondano una narrazione, un senso di giustizia, dei valori, delle visioni del mondo. Descrizioni insomma, informate da pregiudizi, che però hanno il potere reale di determinare il successo, la felicità o il diritto a una vita dignitosa dei singoli, come nel caso delle audizioni delle nostre musiciste. E se il genere potesse non essere determinante nelle politiche di assunzione? Se potessimo sposarci, avere figli, con chi vogliamo?
Sembra assurdo dover ancora fare questi discorsi, eppure è recente la decisione della Procura di Padova di impugnare gli atti di nascita dei figli di coppie omogenitoriali. Ed è per questo che abbiamo ancora troppo bisogno di immaginare delle narrazioni alternative, di costruire insieme nuovi orizzonti di possibilità. Ne è testimone il Pride che il 24 giugno, per la prima volta dopo dieci anni, ha percorso calli e campi veneziani a ribadire quel diritto all’auto-determinazione di cui parla Versuch über das Sterben. È vero: raccontare sé stessi nella propria interezza è un atto di coraggio. Come dice Nikitin, essere vulnerabili è un’abilità da imparare, permette metaforicamente di ritinteggiare il drappo nero che separa la nostra interiorità dal mondo. «Con questo atto, le persone cambiano. Attraversano un confine, verso qualcosa che in quel momento è completamente incerto e indefinito». D’altro canto, è   anche vero che la responsabilità della vulnerabilità non può essere lasciata al singolo. Appropriarsi dello spazio, sganciarlo dalla paura e aprirlo alla libera espressione del sé presuppone una disponibilità collettiva, una riscrittura così efficace da, chissà, cancellare un giorno la necessità stessa di quelle tende nere.

Da qualche parte esiste una perfetta successione di parole tanto magica da riuscire a esprimere esattamente ciò che prima si sentiva in assenza di significato, ciò che prima era una nebulosa di pensieri. È l’incantesimo della scrittura, la pratica di incidere concetti ed emozioni su di un foglio bianco. A teatro si trasforma in drammaturgia. Nonostante l’attuale orizzonte teatrale sia informato per la stragrande maggioranza dalla messa in scena di testi classici o da modalità a vocazione performativa che rinunciano ad avvalersi di testualità drammatiche, si continua a ragionare sulla produzione di scritture e testi originali per la scena.
Muovendosi nell’intenzione di favorire ogni possibilità espressiva e perseguendo parallelamente il proposito di promuovere la crescita di nuove leve, la Biennale Teatro ha promosso anche per il 2023 il bando Drammaturgia Under 40, giunto alla sua terza edizione. Si tratta di un percorso che si articola in tre fasi. La prima selezione sceglie i partecipanti che, nel contesto della Biennale College Teatro, seguono un workshop tenuto dal drammaturgo Davide Carnevali. Al termine del lavoro svolto durante il laboratorio, i partecipanti formalizzano la loro idea in una proposta testuale che sarà letta ai Direttori Stefano Ricci e Gianni Forte. Infine, questi individuano due vincitori che dovranno completare entro l’anno seguente il proprio testo, destinato a una mise en lecture nella successiva edizione della Biennale.
Nei frenetici giorni del Festival, sono dunque in gestazione nuovi mondi dipinti con le parole. Assumendo lo stesso tema di partenza, i drammaturghi e le drammaturghe hanno elaborato il proprio progetto. Sono giunti a Venezia con alcune sezioni già redatte, ma buona parte della stesura del testo è avvenuta durante lo svolgimento del laboratorio. Questo ha un’impostazione ormai consolidata dalle precedenti edizioni: Carnevali guida i partecipanti alternando sessioni collettive e individuali, in modo da permettere l’approfondimento di ogni lavoro con il maestro e al tempo stesso offrire a ciascuno il tempo necessario per scrivere.
Chi redige il presente articolo ha potuto seguire, per un giorno, l’attività del workshop. Il lavoro procede nello spazio tutto bianco e moderno del Teatrino di Palazzo Grassi, composto da due ambienti principali: un ampio foyer e un sobrio auditorium con un piccolo palcoscenico. La location sembra la perfetta prosecuzione della pagina bianca, un abisso neutro in cui i drammaturghi sono chiamati a trovare i colori del mondo in cui vogliono condurre i futuri lettori e spettatori.
Al mio arrivo, il processo creativo aveva inaugurato una nuova fase di sviluppo in cui mettere alla prova quanto fin qui scritto. Lavorando collettivamente con i colleghi, necessari alla messa in voce del testo, ogni autore e ogni autrice ragiona in vista della presentazione della propria opera che dovranno fare, a porte chiuse, per i direttori della Biennale Teatro. Carnevali fa lavorare simultaneamente su due testi nei due spazi del Teatrino. L’obiettivo è fissare in una lettura di dieci minuti l’illustrazione del mondo che ognuno ha coagulato in parole. Si legge, si riflette, si verifica l’enunciazione dei grafemi segnati sullo spazio bianco. Ciascun autore dà indicazioni, spiega il suo progetto, precisa il modo in cui vorrebbe che quelle parole fossero dette. I ragazzi ragionano in termini di ritmo, di intervallo pausa-suono e di velocità, come se il testo fosse una partitura che bisogna imparare a suonare. Questo processo porta poi a riconsiderare la scrittura; la lettura è il riferimento sulla base del quale si pensano le variazioni da apportare. Si valuta il registro espressivo, la pertinenza e la funzione di una parola, di un passaggio, di un periodo. Carnevali dà consigli e suggerisce modifiche.
Il giorno trascorso con i dieci drammaturghi mi ha messo in contatto con l’immenso desiderio che ognuno di loro cova. È l’urgente bisogno di espressione che travalica forme e modi consuetudinari, che insegue la più profonda libertà di dirsi e dire. Al Teatrino di Palazzo Grassi vi sono dieci futuri autori e autrici, colmi di vita che sognano con le parole, e che con esse vogliono mostrare il mondo che hanno immaginato.

Dietro le quinte del Teatro Piccolo Arsenale, tra magazzini e scenografie, incontriamo Giacomo Garaffoni, autore di Veronica, e Federica Rosellini, a cui è stata affidata la regia. In scena in prima assoluta all’interno della 51a edizione della Biennale Teatro, il testo è vincitore del bando Biennale College - Drammaturgia Under 40 2021-22. La conversazione con i due artisti è stata un'occasione per approfondire la genesi dell’opera e il suo sviluppo, scoprire di quali riferimenti si è alimentato il processo creativo e confrontarsi su che cosa significhi riconoscere i propri maestri e al contempo “liberarsene”, per costruire qualcosa di proprio.

 

Come nasce e si sviluppa il lavoro per Veronica?

Giacomo Garaffoni: È un testo che segna un momento importante del mio percorso e si inscrive in un lavoro di ricerca sul vuoto. Il mio punto di partenza è la mancanza, e da qui cambio costantemente strategia per trovare una strada per misurarmi con questo abisso. Ma confrontarmi con il lutto è anche un mezzo per vedere il futuro della nostra specie a partire dalle icone come forme generatrici. Nel testo si parla di una Venere di Klein che viene lentamente espansa fino a macchiare tutto e a diventare simile a un Pollock. Si tratta di un percorso generativo e magmatico, come sfaldare un’immagine con le mani.

Federica Rosellini: Nel testo, Orfeo, il protagonista, registra e in qualche modo fa suonare le voci dei personaggi femminili. Nella mise en lecture, prima, e ora nello spettacolo, mi premeva invece rispettare le identità di musiciste e autrici di Serena di Biase e di Elena Rivoltini: i testi delle canzoni sono composti da Serena su delle mie suggestioni, mentre il canto barocco di Elena è parte della sua formazione. Nella fase di messa in scena ho inoltre approfondito il senso del titolo, prendendo in considerazione le sue varie componenti: Veronica, intesa come “vera icona”, non è solo la ragazza che muore, ma anche la cristallizzazione di un’immagine e la nostra necessità di fluire verso un’interspecie.

 

Quali sono per voi i punti di riferimento più significativi?
GG: Io vivo in mezzo ai libri. Due anni fa, quando sono arrivato a Venezia e sapevo già che avrei lavorato su Veronica, con me c’era solo Il tema dell’addio di Milo De Angelis, poeta di riferimento e per me persona cara. Anche il mondo delle arti visive è un grande “maestro”. Fondamentali sono le pitture rupestri: credo che il teatro abbia a che fare con la caverna primitiva: luogo di passaggio buio, ma con una piccola luce che permette di disegnare ciò che ci succede.
FR: Ho preso i riferimenti di Giacomo e li ho portati a quello che è il mio mondo: le sue pitture rupestri sono diventate le mie icone bizantine, il suo Picnic at Hanging Rock è diventato il Giardino delle vergini suicide di Sofia Coppola. La sua Venere di Klein è diventata acida, era una venere blu che ho fatto diventare verde per tante ragioni: il blu è uno dei colori chimicamente più instabili, che nei secoli diventa verde. E “inacidire” il testo è stato per me portarlo vicino ai racconti new weird – un sottogenere della narrativa fantastica tra fantasy, fantascienza e horror – che hanno a che fare con la metamorfosi, come La vegetariana di Han Kang oppure Morte di Paesaggio di Margaret Atwood.
Detto questo, nei miei lavori traccio una matrilinearità di riferimenti: per esempio, in Carne blu sono per me di ispirazione Rebecca Horn, le sorelle Wertheim e Louise Bourgeois; questo ha un valore a livello concettuale, ma anche nella mia vita, formata più da donne. Purtroppo, però, nel nostro settore, i maestri generalmente sono uomini. Auspico che a breve si possa dire di più “la mia maestra è stata…”.

Come si definisce oggi, dal vostro punto di vista, il rapporto coi maestri, fra figure di riferimento che faticano ad “abdicare” e giovani generazioni che si trovano spesso in una condizione di consenso e reverenza, fra la coerenza con quanto imparato e la necessità di costruire un proprio percorso indipendente?
FR: Non credo serva che i maestri “abdichino”, quanto piuttosto un maggior coraggio generazionale. Credo che oggi ci si impedisca l’errore e si tenda a fare un teatro che “va d’accordo”, che asseconda pubblico e produttori. Bisogna essere assoluti, anche “pazzi”: la nostra generazione deve preferire l’irrealizzabile rispetto a un prodotto ben confezionato. Altrimenti si ricalca qualcosa che è già avvenuto; e invece i terreni fertili sono proprio quelli dove ci sono errori. L’importante è tentare una via, per davvero. E le istituzioni dovrebbero sostenerlo. La Biennale l’ha fatto: ci ha dato un luogo, ha scommesso su un progetto. So che il mio lavoro è “scomposto”: mi importa prendere decisioni radicali. Se lo facessimo in tanti, si creerebbe un mutamento che darebbe spazio a nuove persone dopo di noi.
GG: Consenso è una parola terribile, un punto pericoloso, spesso legato a una memoria atroce. Credo che dovremmo essere implacabili, anche con noi stessi, per diventare i nostri maestri. Quando seguiamo formule che funzionano, quando cerchiamo il pubblico che non esiste, invece che lo spettatore, imprigionando le persone anziché liberarle: allora scegliamo i maestri e la moda. Come nel Dialogo tra la morte e la moda di Leopardi. Vorrei scegliere sempre la morte: perché la nostra è una guerra contro il reale, che siamo destinati a perdere. Mi sono accorto che nel mio lavoro c’è una tendenza tragica – come quella di Edipo e di Medea – a creare solitudine. E questo è il motivo del teatro: un posto molto buio, dove le luci sono ferme...

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