La luce del mattino filtra tra le grate della porta della redazione. Arriva flebile al sottobosco dove giacciamo immobilizzati, novelli omini di latta del Meraviglioso mago di Oz, come accade a “The tin woodman”, ragazzo in carne e ossa trasformato in stagno da una maledizione della Strega dell’Est, che resta bloccato nella foresta in cui si trovava dopo essere stato sorpreso da un temporale. Salvato da Dorothy e dallo Spaventapasseri, che prontamente oliano le sue articolazioni arrugginite, si unirà al loro viaggio verso Emerald, nella speranza che il Mago di Oz possa donargli un cuore.
Anche noi ci prepariamo a metterci in marcia, oliati dai nostri Maestri che ci punzecchiano amorevolmente. Abbiamo acconsentito a un patto invisibile, ma deve esserci qualcosa di più che ci muove, a cui attingiamo quando le ore di sonno mancato iniziano a essere troppe, quando gli impegni si impilano in una mole spaventosa. Cosa sarà?
Alla fine della favola, l’omino di latta ottiene dal mago-ciarlatano un cuore foderato di seta. E noi? Credo che il workshop di critica un paio di cose ce le abbia insegnate. Tra tutte, una: non dovremmo aspettare un placebo per legittimare il nostro sentire, la nostra intuizione. È vero che serve cervello – e infatti lo Spaventapasseri, associato alla ragione, è il primo compagno di Dorothy. Eppure, se esiste qualcosa che può dare un senso alle nostre scritture, non lo troveremo tra criterio e dovere. In fin dei conti, è la promessa che muove l’uomo di latta sul suo cammino.
I due artisti vincitori del bando Biennale College Teatro - Performance Site-specific 2023 sono i protagonisti dei capitoli XIII e XIV del corposo catalogo The Emerald Book. Due creazioni che si appropriano, contemporaneamente, di altrettanti siti di Venezia per circa quaranta minuti ciascuna.
Andiamo allora in via Garibaldi, in quello spiazzo davanti al Bacaro 1813, dove tra l’andirivieni, si raccoglie un piccolo pubblico. All’improvviso, irrompe Rita Di Leo, la pattinatrice di Swan, titolo della performance firmata da Gaetano Palermo. Agile, in pantaloncini Adidas e maglia a righe, porta cuffie wireless e una fascia sportiva che le correda il braccio con lo smartphone. Mentre circola continuamente sui pattini a rotelle e i suoi capelli biondi ondeggiano, immagino si stia muovendo su una playlist pop, magari anni Ottanta. Il suo atteggiamento ricorda quello di alcune mode giovanili giapponesi – le Lolita, tra la purezza e la sensualità erotica, o le eccentriche Kogal –, un mix di manierismi artificiosi del femminile. La pattinatrice continua a girare, fermandosi solo per fotografare sé stessa con un’estetica simulata da selfie e si filma, poi, come a voler registrare i suoi virtuosismi – tra arabesque scorrevoli, giri e camminate indietro – da pubblicare sui social.
Il rumore di uno sparo, come di un fucile da caccia, ferisce il soundscape di quel momento: lei cade, volano i piccioni. Si ricompone come se nulla fosse. Un altro scoppio. Cade sulle ginocchia e un signore dalla fontana, chiede «are you okay?». Una traccia di rumore bianco tinta dal garrito di alcuni gabbiani fa da sfondo a una serie sterminata di cadute e riprese che svela piano piano un viso posticcio. Imperterrita, la performer continua il suo spettacolo frammentato da una serie sempre più serrata di spari e cadute che fanno scivolare progressivamente una parrucca, indossata dalla Di Leo, smascherando così un’inattesa calvizie. La performer si macchia di sangue tra le gambe e intanto chiede a una spettatrice di filmare la sua apparente resilienza. Si sentono i fuochi d’artificio. Due giri ancora sul suono bianco, poi collassa e, improvvisamente, entra in modo tagliente a volume massimo Hung up di Madonna.
Tra il fantasmatico e il perturbante, Gaetano Palermo si ispira alla celebre La morte del cigno. E la pattinatrice, che inscena la drammaticità dell’esistenza tra volontà e passività, può evocare il rinomato balletto. L’esito è una performance di forte impatto che abbraccia strutturalmente e drammaturgicamente un’indagine sullo sdoppiamento della vita tra realtà e finzione, banale ed essenziale.
La seconda creazione site-specific, Fluid Horizons, abita campo Sant’Agnese: è la performance dell’artista croata Morana Novosel. Differentemente da Swan che pone il pubblico e i passanti ad assistere a un’azione, qui il rapporto tra spettatore e performer viene messo in crisi. L’artista è presente “in borghese” e spiega ai curiosi, con fare modesto, come muoversi in quello spazio mutato da diverse installazioni. Vagamente romboidale, è circoscritto da cinque strutture in ferro, ognuna corredata da altoparlanti e altri oggetti. Inizio il mio percorso dalla struttura in cui sono appesi tre binocoli da utilizzare per cercare i volatili e osservare il loro movimento, mentre ne parla una voce amplificata. Da lì, in senso orario, seguo un’altra cornice che alla base ha tre specchi, in cui si riflettono porzioni del palazzo retrostante. La struttura vicina ripropone lo stesso format corredato però dalle narrazioni di diverse voci. Nella quarta tappa, due file di sedie sono rivolte verso un’altra zona del campo. Separato da una cornice, ricambio lo sguardo di un anziano che riposa sulla panchina. Sembra che l’autrice inviti a chiedersi chi sia davvero dentro l’opera. Dopo il passaggio all’ultima postazione, mi dirigo verso il centro dove è posizionato un tavolo coperto di libri aperti, ognuno dei quali è collegato con dei fili colorati a una scheda elettronica. Basta toccare il punto marcato in ogni volume per avviarne la relativa registrazione. Tutte le tracce riguardano storie o esperienze su Venezia che, private di un ordine rigoroso – insieme alla loro spazialità – danno la possibilità di creare una quantità di drammaturgie per ogni singola persona che vive la performance. Più che narrazioni, infatti, l’intento di Novosel è quello di creare nuovi posizionamenti dello sguardo. Uno spazio nello spazio, dunque, che nel suo essere circoscritto è capace di eliminare i borders rendendo gli orizzonti, urbani e mentali, più fluidi.
Non tutto ciò che si manifesta nella realtà è passibile di una facile concettualizzazione. L’ineffabile e l’irrazionale informano le esperienze della vita tanto quanto i loro opposti. Merleau-Ponty nei suoi studi parla di un senso nel sensibile che antecede l’avvento delle categorie concettuali, che giungono solo a posteriori. Il riferimento al filosofo francese può essere uno spunto particolarmente fecondo per dire del lavoro di uno dei più importanti artisti teatrali italiani degli ultimi decenni, tra i più noti a livello internazionale: Romeo Castellucci. Le sue creazioni sceniche manifestano un pensiero estetico refrattario a congelarsi in significazioni ben definite. Il suo teatro turba emotivamente lo spettatore, lo lascia senza difese dinanzi alle immagini che partorisce. Nella lezione magistrale tenuta a Bologna nel 2015 dal titolo A te, giovane artista ignoto, Castellucci afferma che «Il significato più pressante […] non è il contenuto, ma la forma, che è vera catarsi. La forma stessa del vedere. La presentazione di un’immagine […] è già, essa stessa, una forma che implica il corpo di un osservatore in stato di veglia. La visione dell’immagine è capace di rivelare e aprire il luogo della visione stessa. Siamo soli davanti a questo, perché guardare qui significa essere visti dall’immagine, essere messi a nudo da essa». Dallo stesso scritto si evince che le composizioni sceniche di Castellucci rigettano ogni «retorica certezza, o riparo culturale, appoggio letterario o filosofico perché ogni vera forma trascende il suo movente». Dunque, un teatro dalle immagini sconcertanti, il cui specifico risiede in una costruzione formale che non ammette il facile contenutismo.
Castellucci è un artista decisamente prolifico, il cui percorso si è intrecciato in più occasioni con la Biennale Teatro. La prima apparizione alla rassegna veneziana, assieme alla Socìetas Raffaello Sanzio, risale al 1984 con lo spettacolo Kaputt Necropolis che diede modo di presentare la lingua da lui e dal suo gruppo concepita: la Generalissima. Inventarsi una lingua restituisce la radicalità con cui Castellucci, nel suo operato estetico, ha ricercato forme d’espressione non consuetudinarie. Da qui seguiranno lavori importanti e sorprendenti che manifestano un modo d'essere del teatro del tutto peculiare.
Nel 2005 l’artista è di nuovo alla Biennale Teatro, ma, questa volta, nel ruolo di Direttore Artistico. Nel recente libro di Jean-Louis Perrier, La disciplina dell’errore. Il teatro di Romeo Castellucci. Scritti e interviste (Cronopio, 2022) è possibile imbattersi in alcune ispirate pagine che raccontano cosa fu quell’edizione del Festival. Castellucci la denominò Pompei, il romanzo della cenere. Un titolo coraggioso, sottolinea Perrier, poiché definiva in maniera specifica il percorso che l’evento avrebbe condotto, rifiutando l’eventualità di una programmazione più soggetta al calcolo e alla convenienza. La Biennale è stata con Castellucci il luogo in cui entrare in contatto con la pura ricerca artistica, con la vera sperimentazione, in un tempo dove, stando a Perrier, «ogni riferimento alla ricerca era diventato sconveniente» e «i festival servivano solo a […] mostrare il già trovato». Con Castellucci, Venezia mostra «quello che si è cercato», delineando un percorso che prevale sulle singole tappe.
Nella storia dell’artista alla Biennale, va ricordata l’assegnazione del Leone d’Oro alla carriera nel 2013 «per aver creato mondi in cui si arriva all'eccellenza della rappresentazione di stati onirici, che è forse la più bella affermazione che si può fare del fatto teatrale», scrisse l’allora direttore del Festival Àlex Rigola.
Tante altre sono poi le presenze a Venezia dell’artista, e quest’anno, Castellucci è di nuovo ospite della programmazione della Biennale Teatro. Condurrà un workshop di tre giorni che il regista descrive alludendo al sacro, al mito e alle origini del fatto teatrale. Si potrebbe dunque avere un’idea di cosa attenda i partecipanti o forse no, perché con Castellucci mai niente è davvero prevedibile.
Il regista sarà a Venezia anche con l’azione performativa domani realizzata per la Triennale di Milano. Nelle note di regia si parla di “emblema”, «un intarsio che comporta una composizione di figure» e che «cavalca le parole e i loro nessi per dire altro con le immagini». Il titolo induce invece a una proiezione verso l’ignoto: il domani è un’interrogazione che riguarda il vivere sociale ma anche l’arte, e certo si può ragionare sul futuro dell’arte avendo come riferimento un artista come Romeo Castellucci. Nelle note di regia vi è riportata un’affermazione di Andrea Alciato: «le parole significano, le cose sono significate. Tuttavia anche le cose talvolta significano». Così torniamo al punto di partenza, il senso nel sensibile di cui parla Merleau-Ponty…
Ma impareremo mai ad avere uno sguardo capace di comprendere davvero il “dove” e il “perché” degli spettacoli? Inevitabile come questo sia legato alla tendenza – difficile da sconfiggere – di ridurre tutto alla nostra percezione dell’“esotico”: cioè, l’idea che un immaginario diverso dal nostro debba essere una sorta di interferenza, entrare in contrasto con le visioni usuali e riuscire a comunicare un senso d’alterità per essere qualificato come tale. Invece, ci stupisce quando accade l’opposto e le geografie teatrali che vanno in scena, talvolta anche molto remote, si esprimano con riferimenti vicini e affini a cui lo sguardo “occidentale” è abituato (servirebbe una specifica opportuna per definire cosa sia Occidente, nel nostro caso). In questo senso, risultano indicativi per esempio i casi di Mattias Andersson o di Boris Nikitin: entrambi latori del peso di una cultura post-calvinista, in cui tradizionalmente il privato deve rimanere tale, cercano di smuovere nel pubblico l’importanza di svelarsi e di creare un’agorà capace di aprirsi e comunicare.
In tutto ciò, la libertà d’espressione e di confessione sottolineata da Andersson e da Nikitin permette di percepire proprio la nostra visione (presunta) oggettiva come foriera anch’essa di un’ideologia precisa ma alternativa rispetto alla loro. Similmente altra e altrettanto culturalmente determinata è la posizione di Tiago Rodrigues, che sarà presente alla Biennale Teatro 2023 negli ultimi giorni di Festival: centrale è la sua costante analisi del rapporto di un Portogallo post-salazariano con il passato, decisamente non risolto – per come risuona carico di silenzi e oscurità, per tutti i non detti che da quarant’anni non concedono una prospettiva nitida, socialmente accettata, su ciò che è stato. «The past is past but memory is a present exercise of today, of how to use the past to be useful, important, relevant today» osserva Rodrigues. Forse, dovremmo cominciare a fare il punto con l’idea di un Occidente in cui, con questi esercizi “ai margini”, non può che rinvigorirsi l’urgenza di trattare della realtà, non più come estetizzazione sociale e politica (di cui già nei giorni scorsi ci occupavamo), ma come fatto ancora infestato.
Il caso di Bashar Murkus – in scena lo scorso weekend – permette di trattare questi gap nello sguardo anche da un punto di vista scenico-visivo. A partire dai suoi stessi riferimenti: che si tratti della possibile influenza di Pina Bausch, Jan Fabre o Dimitris Papaioannu, Murkus crea un cortocircuito espressivo-simbolico, possiamo immaginare in attrito con le abitudini del pubblico palestinese. Ecco che, nel raccontare la tragedia delle figure femminili, l’artista “legge” l’eterogeneità dei corpi, denudandoli, in contrasto con la tendenza musulmana a nasconderli. Anche il contatto tra le sei interpreti e l’unico performer maschio, Eddie Dow, è profondamente connotato: i baci, i lunghi abbracci tra lui e il coro femminile, i momenti di affetto quasi morboso sembrano così finalizzati a turbare un pubblico meno abituato alla visione di un contatto intimo.
Si tratta di una serqua di riferimenti anche lontani rispetto al coté mediorientale, che le platee di Avignone o della Biennale possono accogliere in maniera forte, magari pensati anche per aprirsi al gusto occidentale al fine di rispondere a determinate dinamiche produttive. Eppure, in tutta la fragile ambiguità che lega gli interpreti in scena, Murkus delinea uno spaccato di una situazione da famiglia elettiva che, per quanto potremmo ridurre a rimando almodovariano, è il modo di parlare del lutto che endemicamente lega il suo popolo. Troviamo donne che negano i loro corpi da madri, ma che non smettono di cercare figli da amare; persone che, persi i loro cari, cercano dei sostituti, scoprendosi però scontente e melanconiche; e voragini piene di latte – simbolo paradisiaco nella teologia araba, e quanto più affine al sangue di un figlio, innocente e scevro di qualsiasi rimando alla violenza. Tali abissi si aprono al cordoglio, solo per essere respinti e presto richiusi.
Per poter davvero scrutare in tutto questo, è necessario assumersi la responsabilità di essere un pubblico che si sa collocare, che sa vedere secondo coordinate diverse dalle proprie: e comprendere che il repertorio a cui è abituato può portare a geografie artistiche altre, distillando la cognizione di nuovi sentimenti politici.