Solo e delirante. Come un mago alla fine del mondo, che non ha nessuno su cui esercitare i suoi poteri. Come Hamm al centro di un bel nulla nel Finale di partita beckettiano con la sua dimensione allucinata, ulteriormente marcata dalla cecità, dall’inequivocabile distacco che crea tra sé e il dato oggettivo. Certo, ci sono significative discrepanze tra Hamm e Oz: non si può creare una piena sovrapposizione anche perché, in aggiunta a tutto il disincanto, il mago della fiaba poi rinuncia all’illusione che ha costruito attorno. E infatti, quello che ci preoccupa è l’Oz before the rainbow, che comanda un Emerald City dove Dorothy non è ancora passata, tra nubi e fanfare.
Oggi vogliamo mettere in discussione la nostra posizione di critici – quella di chi ha appena cominciato a muoversi in questo ambiente. Perché nella bolla di illusioni, siamo i primi a essere chiamati a riprendere un contatto con la realtà. Dobbiamo svelare qualcosa, anzitutto a noi stessi: educarci a essere consapevoli del nostro ruolo, di quali narrazioni del teatro che vediamo stiano effettivamente emergendo, senza farci accecare dalle utopie in cui confidiamo. O concederci anche di rimanere abbagliati, ma per riflettere su cosa sarà di quest’oggi: come indovini, come il Tiresia cieco che sa guardare al futuro.
Questo è un Emerald che non vuole raccontare dei nostri ideali ma parlare di quanto sia necessario metterci allo specchio, riconoscere cosa possiamo effettivamente dare al mestiere di critico che in questi giorni abbiamo provato a esercitare. E partire da lì.
Leonardo Ravioli
Hamlet è un’appropriazione. Non c’è nessuna intenzione di essere fedeli al testo, di allestire Shakespeare in modo credibile, al massimo adattandolo per avvicinarlo alla sensibilità dei nostri tempi. Lo spettacolo di Boris Nikitin, presentato la prima volta in Italia alla Biennale Teatro, è un gioco prospettico. Amleto è un pretesto che il regista e drammaturgo sfrutta per arricchire le linee della sua ricerca personale e amplificarle attraverso un sistema di riverberi. L’operazione è resa ancora più evidente se alla visione di Hamlet si accompagna quella di Versuch über das sterben. Il secondo lavoro, infatti, viene composto durante i preparativi per il primo, e sembra quasi costituirne le note di regia. Tra le due pièces i temi si rincorrono e in alcuni momenti si ripetono praticamente identici. È grazie alla visione di Versuch, dunque, che è possibile rendere conto della sovrapposizione di piani operata in Hamlet. Da un lato sappiamo che uno dei nodi tematici di Nikitin si rintraccia nell’intersezione tra realtà e spazio scenico; la si vede declinata in Hamlet attraverso la presenza performativa di Julia*n Meding. Dall’altro lato, proprio prendendo le mosse da Versuch, è possibile capire quanto del testo sia tratto, non dalla vita di Meding ma dalla biografia di Nikitin stesso.
La scenografia di Hamlet è scarna. Il pavimento nero è delimitato da delle lampade – otto a sinistra, quattro in fondo, altre otto a destra – e da uno schermo posto in diagonale in un angolo, dove viene proiettata, magnificandola, l’immagine di Mending. Nell’altro angolo, invece, sta un quartetto barocco, Der Musikalische Garten, che accoglie gli spettatori all’ingresso per poi uscire all’inizio dello spettacolo e ricomparire verso la metà. Al centro del palco ci sono una sedia, una chitarra, un microfono e la figura di Mending, che entra indossando una maschera da lupo.
«This is not theatre / This is not a performance / This not a concert / This is not real life / This is not reality / And it’s not the first act either», annuncia. E che cos’è, allora? Forse, l’intersezione stessa, un regno di ombre abitato dagli spiriti. La contaminazione di formati e piani narrativi, infatti, è sapientemente utilizzata per rompere il patto scenico e avviare una meta-riflessione sul senso del sé. «It is about bodies», dice Meding quasi subito. Questione di corpi, di come la materia si rapporta alle identità che veicola. Al paradosso dell’individualità performata, reso esplicito dall’inscenamento dell’esplorazione biografica, segue una riflessione sulla morte del padre e sul tentativo di conciliare la memoria viva con un corpo morto. Il fantasma di Hamlet è il fantasma dell’identità.
Oltre al parallelismo con la morte se ne opera un altro, quello tra teatro e ospedale. Entrambi i luoghi sono visti come spazi utopici, dove mostrarsi nella “malattia” diventa un modo per recuperare la propria partecipazione e scardinare la norma. Si tratta di rivendicare la propria forza di contro a un sistema che esclude i dissidenti, etichettandoli come malati. Di appropriarsi degli attributi patologici e integrarli secondo le proprie regole: per superare il dubbio che sia la propria distorsione a far percepire che c’è qualcosa di sbagliato. Si può fare, perché siamo in uno spazio sicuro. Questo concetto è ripetuto più volte. L’invito è di intendere il biglietto per la rappresentazione non come un contratto che offre una qualche forma d’intrattenimento ma come un patto di solidarietà, la porta d’accesso a una nuova comunità.
Essere arrabbiati quanto basta: come la cenere che ricorda la brace, ma più di tanto non può scaldarsi. Sembra poco più di un sussurro, un brusio di acrimonia che tutto vorrebbe, che non riesce a divampare – come la fiamma di un fuoco quando brucia più fredda, quasi con distacco. O, appunto, come voci di cenere: quelle che Stefano Fortin – vincitore del bando Biennale College Teatro 2022 / Drammaturgia Under 40 – frammenta, allontana, incastra in un ribollire di pensieri, tra battute e note di drammaturgia. Un mosaico violento di frustrazioni inespresse, vissute dalle nuove generazioni.
Ma alla fine, di inespresso c’è ben poco. Cenere ha al suo cuore la lettera – già di sei anni fa – di un ragazzo di Udine sul fallimento invisibile cui sono costretti i giovani oggi: sono parole che precedono il suicidio, che non possono non risuonare in chi le legge. Trovarle sul giornale – se ne ha un esempio qui – fa pensare che quel gesto avrebbe dovuto provocare qualche reazione, tanto è estremo. Il miraggio dei media: come parlare di presente, nel suo travolgerci, tra quotidiani, telegiornali e sistemi di informazione ininterrotti, permette di credere che i fatti di cronaca siano costantemente tra noi, in qualche maniera agiscano attivamente su una comunità.
È giusto allora portare un testo del genere a teatro. È quella distanza a cui rimanda Valentino Mannias, uno dei narratori in scena, leggendo durante Cenere la lettera del giovane suicida: la distanza creata dalla finzione entra a far parte di uno storytelling che ci abitua a vedere un evento in maniera analitica, drammaturgicamente studiata, come se su tutto calasse il freddo di un’autopsia. Non è un bene, non è un male: d’altronde, quello a cui Fortin si apre è un discorso estremo sull’autofinzione, su come i suoi personaggi parlino dell’estremo presente (fino a commentare l’attimo estemporaneo). Inevitabile, dunque, che le tare del reale si facciano evanescenti. Il lavoro del drammaturgo opera così sul portato emotivo: è più difficile empatizzare con le parole della lettera, diventando una delle voci di cenere. Perché, come evidenzia Fortin, «quello che state vedendo in scena non è uno scenario apocalittico»: è solo una delle storie, un angolo tragico tra i tanti che si annotano nelle pagine della cronaca.
L’autore, a partire da quel mosaico, fa un panottico di una crisi congelata: di narrazioni che si susseguono, di una tragedia che si trascina e sembra non realizzarsi per davvero. I sei attori in scena (oltre a Mannias, Sylvia De Fanti, Giampiero Judica, Francesco La Mantia, Alessandro Riceci, Giulia Weber) attraversano una mise en lecture con la regia di Giorgina Pi, fatta di frammenti di storie, dove quella sofferenza sottopelle diventa una crosta che non si riesce a grattare via: più un sentimento di minaccia, qualcosa che si staglia sul crinale di un dolore incommensurabile, ma che non riesce a commuovere.
Si passa da una scena (pinteriana) di un padre e una madre che aspettano loro figlio scendere per colazione, raccontandone l’assenza come sintomo della sua abulia da “sdraiato”; a una scena del crimine – più correttamente, del suicidio – che rende inquieti gli agenti coinvolti, impossibilitati ad andare oltre alla burocrazia; fino alla lettera, alla descrizione dilaniante di una quotidianità registrata, di cui si perde il filo. Nulla rimane: solo la sensazione di quella cenere che tutto avvolge, una barriera invisibile contro cui non ci si riesce a scontrare per superare il disagio generazionale. Fortin parla di un Laio che uccide gli oracoli: come un maestro che si proclama disposto a farsi uccidere, ma che, così facendo, si mette al centro di un processo generazionale, che non consente un vero ricambio. Forse, è in questo che si staglia l’unica “apocalisse possibile”: vale a dire, quella costituita da un consenso tacito di cui tutto il presente si permea; una realtà che conosce solo orizzonti irraggiungibili, dove ogni tentativo è inutile, senza alcuna sicurezza. Scompaiono i mulini a vento contro cui scagliarsi: rimane solo una rabbia senza oggetto che avvelena anche le note di drammaturgia di Fortin e che, ancor di più, lo rende capace di riflettere sul disastro a cui i giovani stanno andando incontro.
Che strana e affascinante parola, “dissenso”. Sempre usata, e abusata, sul filo del fraintendimento, della mistificazione, dell’opportunismo. Parola che risuona anche in teatro, che determina poetiche ed estetiche della scena. E termine quanto mai attuale, in una stagione in cui prevale il “consenso” pregiudiziale e acritico. Il filosofo Byung Chul-Han aveva già sollevato, e da tempo, il problema. Ogni attrito tende a scomparire, resta la levigatezza: le dita scivolano morbide sullo schermo del cellulare; una suadente patina deve impregnare di sé ogni contatto umano; lo “status” è sempre positivo, sui social siamo tutti amici, il pollicione è sempre un “like”... Tutto piace e diverte nella società performativa del benessere.
Giustissima, allora, l’intuizione de La Biennale di organizzare, all’interno della mostra B74-78. Lorenzo Capellini. Un racconto fotografico allestita a Ca’ Giustinian, una sintetica ma efficacissima sezione sulla “Biennale del Dissenso culturale” del 1977. Erano gli Anni di Piombo, periodo di lotte armate e follie omicide. E l’istituzione veneziana era impegnata per allargare i propri orizzonti affrontando direttamente le questioni politiche più scottanti: dopo una forte crisi – dovuta alla famosa contestazione studentesca del 1968 –, la nuova presidenza di Carlo Ripa di Meana, nominato nel marzo del 1974, mette in scacco l’egemonia del Partito Comunista, e rilancia con grande militanza la manifestazione. Dapprima tramite un omaggio alla cultura cilena oppressa dalla dittatura; poi con un arioso affondo su un teatro (anche senza spettacolo) fatto di ricerca e di pratiche creative grazie alla direzione di Luca Ronconi (che portò in laguna Peter Brook, Grotowski, il Living, Eugenio Barba, e molti altri). Fino alla vivacissima edizione 1976, anche questa ricca di ospiti di respiro internazionale.
Ma l’anno seguente, era il caldissimo 1977, delle rivolte di un “non-movimento” studentesco che stava nuovamente infiammando le piazze d’Italia. Sullo sfondo, s’inasprisce lo scontro politico tra il consolidato Pci e un Psi che cominciava a sgomitare, guidato da Bettino Craxi: insomma, si disputava tra una posizione più filorussa “ortodossa”, e l’apertura contestataria socialista, che vedeva nel moloch moscovita una dittatura capace di schiantare ogni fermento creativo difforme alla linea di partito. Alla luce di oggi, è facile dire chi avesse ragione, ma all’epoca la questione fu davvero esplosiva. In un clima di subbuglio generale, l’edizione 1977 diventa paradigmatica. Il claim del Festival è “Il dissenso culturale”, l’immagine è una stella rotta, e non tutti sono d’accordo, anzi. Si creano molti scontenti. Il giornale di partito, L’Unità, il 12 novembre 1977 attacca con un articolo di Gianfranco Berardi: «Un “pasticcio” per il dissenso», intervistando Adriano Serioni, membro del CdA de La Biennale in quota Pci. Risponde lo stesso giorno L’Avanti, organo del Psi, con un articolo a firma Vittorio Giacci: «A pochi giorni dall’apertura della “Biennale del Dissenso”, le preoccupazioni e i problemi sorti fin dall’inizio sono ancora gli ostacoli e le interferenze che quotidianamente vengono frapposti per impedire lo svolgimento regolare della manifestazione. Se era immaginabile l’atteggiamento dell’Unione Sovietica, anche se non nei toni così violenti con cui si è espresso, è invece motivo di amara sorpresa scoprire che anche in Italia si sono verificati sbarramenti che vanno dall’argomento del “non intervento” ad una sorta di acquiescente osservanza della rigida posizione dell’URSS, da una serie di “ma”, “se”, di “distinguo” ad atti di palese e occulta ostilità».
Tra le tante prese di posizione anche quella di Alberto Ronchey sul Corriere della Sera del 15 novembre: «…per i dissidenti interni del mondo sovietico non c’è diritto al passaporto. Cinquanta inviti restano senza risposta, una lettera raccomandata per Sacharov è stata respinta perché “il destinatario è sconosciuto”… Ma questo era previsto. Nessuno supponeva che i governi dell’Est avrebbero favorito manifestazioni dedicate ai loro dissidenti, riconoscendoli come legittimi oppositori» (tornò indietro anche l’invito al regista Parajanov, che era in carcere da 4 anni, perché «partito», nda). Mentre Forattini firma la celebre vignetta con Breznev dal corpo di Leone, Luca Ronconi dà le dimissioni, e con lui anche Vittorio Gregotti per le arti visive e il Direttore della Mostra del Cinema Giacomo Gambetti. Ma per la “Biennale del dissenso culturale” arrivano a Venezia Jan Kott, Susan Sontag, Alberto Moravia, Dario Fo, Norberto Bobbio, Jean Daniel e, dicono le cronache del tempo, anche «centinaia di studiosi, poeti, filosofi, pittori da ogni parte del mondo: Cecoslovacchi in esilio, russi, polacchi, ungheresi, bulgari: tutta gente che ha rischiato e scontato la galera per amore e gusto della libertà». Il 14 novembre 1977 si inaugurano tre mostre, ma brilla il commento di un operaio di Marghera, intervistato da un giornale locale: «Speriamo che i russi non se arabia, perché queli, se i se inrabia, li xe cativi». Allora come oggi…