Salve. Sono Judy Garland. Ma forse voi – a Venezia, in questi giorni della Biennale Teatro – mi conoscete come Dorothy Gale: mi avete vista nel film Il Mago di Oz. Avevo sedici anni, ero brava. Molto più brava di quella sciocca di Deanna Durbin. Chi se la ricorda, Deanna Durbin? E invece tutti ricordate Judy Garland. Quel film ha sancito il mio successo. Certo, ho iniziato a prendere psicofarmaci per reggere la tensione che Victor Fleming creava sul set. Da me pretendeva molto. Perché ero lei, sì proprio lei: la protagonista, quella al centro della storia, che viaggia verso Emerald. Alla ricerca di cosa?
Cantavo Over the rainbow, e lo cantavo bene. Adesso, che non ci sono più, resta di me quell’immagine bambina. Non più Judy ma eternamente Dorothy. Una cosa, in questo mio mondo, l’ho capita. A rivedere il film – lo rivedo spesso anche se sono morta – mi torna in mente un libro che mi aveva consigliato Fred Astaire, quando giravamo Ti amavo senza saperlo. Si intitola La conferenza degli Uccelli, è stato scritto dal persiano Farīd al-Dīn ʿAṭṭār. Narra del viaggio di un grande stormo di uccelli, i più diversi, guidati dall’Upupa. Gli uccelli hanno bisogno di un re, e si involano alla ricerca del mitico, favoloso uccello chiamato Simurgh. Dopo mille traversie, giungono alla meta solo in trenta. Scoprono che il Simurgh non è altro che uno specchio. L’importanza del viaggio non è nella sua destinazione, non è nel suo compimento, ma è nel viaggio stesso, nella ricerca…
La Biennale Teatro 2023 è terminata. Il viaggio, per quest’anno, potrebbe sembrare concluso. Non è così: sopra le acque della Laguna si continua a volare.
La redazione
L’utopia negli occhi
Stanno per consumarsi anche le ultime ore del 51. Festival Internazionale del Teatro de La Biennale di Venezia. L’evento veneziano ha dispiegato un percorso di spettacoli e workshop intorno a cui artistə, spettatorə e tecnicə, maestrə e allievə, direttorə e collaboratorə hanno avuto l’occasione di incontrarsi, di confrontarsi, di osservare e discutere, immersi in un microcosmo tutto teatrale. La frenesia dei tanti spettacoli presentati di sera in sera, l’attesa di ammirarne le caratteristiche, la sorpresa di scoprire modalità nuove, gli interrogativi lasciati da forme inconsuete, le riflessioni sulle questioni cruciali inerenti alla dinamica performativa: sono ciò che, nei giorni appena trascorsi, ha colmato di diversi stati d’animo il magma di persone unitesi intorno all’arte scenica.
Tuttavia, la Biennale Teatro è stata anche altro.
Tra i molteplici campionari di individui che abitano il teatro, vi è una categoria di soggetti che trova il proprio diletto nel ragionare profondamente intorno a un’opera d’arte. Alludo ai critici: i testimoni, i pensatori e gli interpreti del fatto scenico. Sul dizionario Treccani, si può constatare che il termine critica fa riferimento all’attività di interpretazione e valutazione di un oggetto. Non va dunque semplicisticamente associato all’idea di emettere un giudizio. Dovrebbe essere un’analisi precisa che affonda nelle viscere di ciò che si sta guardando. Dovrebbe essere funzionale alla comprensione, in quanto esito di un’esplorazione accurata se non anche di uno studio vero e proprio.
Credo che gli attuali tempi teatrali – tra l’incessante ricerca del nuovo, la metabolizzazione di sperimentazioni ormai datate e l’eventuale riproposta di ciò che si considera tradizionale – abbiano un estremo bisogno di un acuto pensiero critico. Sarebbe utile per capire, quindi riconoscere e poi apprezzare l’arte teatrale. Tornando al termine critica, va notato che questo deriva dal greco κρίvω (“distinguo”). Sulla base di una simile suggestione, in luogo di categorie concettuali onnicomprensive e inglobanti di ogni fenomeno, bisognerebbe esercitare il riconoscimento delle differenze, da intendersi come peculiarità attinenti a ciascuno spettacolo. Forse, per questa strada, si potrebbe raccontare ogni opera teatrale con parole realmente diverse.
In una critica ideale non si ripete mai la stessa interpretazione, le parole sono sempre nuove e nascono dall’aver visto lo spettacolo. È un’utopia, quella dell’ultimo arrivato, ma mi sembrava un bel modo per chiudere il magico percorso di questa Biennale Teatro: un viaggio fatto proprio da utopie. (P.R.)
Oltre il bivio
Vogliamo ancora perderci nel bosco. Andare oltre ogni certezza, temere di essere soli, abbandonarci al nero della notte: da sempre, per chi vuole diventare adulto, è nello scegliere l’incerto che sta il terreno della crescita. Per Vladimir Propp era il momento della marchiatura – vale a dire, la parte cupa delle fiabe, dove l’eroe restava segnato e di conseguenza, cambiava.
Sì, abbiamo bisogno di un momento del genere, come un rituale di iniziazione dove tentare strade impraticabili, disorientarsi nell’errore – e da lì, ricucire lo strappo. Questo laboratorio, che oggi volge alla sua conclusione, è stato un’occasione per metterci alla prova. Il momento è delicato: la pratica della scrittura critica per il teatro è sempre da reinventare, collocandosi nel mezzo di un percorso di trasformazione. Ci siamo sentiti affini al mosaico di artisti, spettacoli, personaggi e testi che hanno animato questa Biennale Emerald: sotto il segno di una fine incombente, siamo tutti chiamati a dirottare il modo di fare teatro e di parlarne, portando avanti una dialettica costante con quanto ci è stato lasciato, anche per capire cosa abbandonare lungo la strada per farci più leggeri. Interrogarsi su come entrare (per davvero) in rivolta, ragionando sui linguaggi alternativi, sembra allora l’unico sentiero da battere per impadronirci dei nostri significati e della nostra crescita. La vediamo come una spinta generazionale: vogliamo riprenderci la possibilità di smarrirci, di cadere per osservare da altre prospettive e da lì re-inventare, aprire una strada diversa, nuova, in cui poterci perdere ancora. Pensiamo alla Catarina di Tiago Rodrigues. È una presa di responsabilità, in fondo, quella di ritrovarsi a un bivio e decidere di non scegliere fra due vie già battute – con l’angoscia che non portino da nessuna parte – ma di incamminarsi sullo sterrato per tracciare un sentiero nuovo, con la speranza che, invece, quell’alternativa conduca altrove. È la riconquista di un momento di passaggio, un calarsi nel buio dove i mostri possono rivelare fedeli compagni d’avventure.
Ci aspettiamo che la critica possa diventare questo: imparare a orientarci assieme, riconoscendoci come un’unica generazione. Vogliamo che gli interrogativi emersi da queste due settimane di workshop riverberino fuori e si facciano un invito al futuro: che l’occasione di incontro tra sette redattrici e redattori possa allargarsi a tutti i giovani provenienti dalle diverse realtà della critica italiana, per conoscerci, annusarci, dialogare e perché no, finalmente tornare a discutere e condividere un orizzonte.
Firmiamo in due, anche se non vorremmo, perché i pensieri che raccogliamo in questo testo non sono solo nostri: appartengono alle molte voci della redazione, che hanno espanso e nutrito il discorso. Ma forse è giusto così. Ce ne prendiamo la responsabilità, con la speranza di essere contraddetti, di trovare nuovi modi di accogliere e costruire una voce plurale. (I.C. - L.R.)
La messa in corpo dell’opera lirica
Nella Sala Loggione, al quinto piano del Teatro La Fenice, ha preso vita il laboratorio per cantanti lirici proposto nell’ambito della Biennale College Teatro 2023. A tenere la prima fase del workshop è stata la cantante Davinia Rodriguez, che si è occupata di tecnica vocale; poi, il coreografo Ron Howell e il regista Francesco Micheli, nel secondo periodo, hanno scandito le giornate con training fisici e studi sulla costruzione del personaggio, insieme alla pianista Marina D’Ambroso. Il percorso ha l’obiettivo di offrire un’opportunità per i e le giovani che si affacciano al mondo della messa in scena contemporanea d’opera, permettendo loro di riflettere sui cliché ereditati dalle formazioni accademiche e magari anche liberarsene. Di diversa provenienza nazionale e internazionale, i partecipanti hanno preso parte a un’operazione che potrebbe far pensare a quella fatta nel 1998 per il Don Giovanni da Peter Brook, che aveva dedicato i primi dieci giorni esclusivamente al training dei cantanti e a intensi allenamenti fisici.
Assistendo a una giornata di lavoro, è emerso subito il focus principale: sviluppare consapevolezza del corpo. Con la visualizzazione dei quattro elementi naturali, ad esempio, Micheli ha costruito un percorso di ricerca della qualità del gesto partendo da chiare immagini visive e percettive. I cantanti sono stati così catapultati in un universo che pone la fisicità al centro dell’azione, spaziando dalle tecniche dei danzatori balinesi verso esercizi tratti dalla danza contemporanea (elementi di floorwork), pratiche orientali e balli popolari come la capoeira, fino a sessioni marcatamente teatrali. Si delinea così un mondo dove è fondamentale l’eliminazione del pudore e lo sviluppo della propriocezione. Questo tipo di studio, fuso con il canto lirico, fa emergere straordinariamente, ancora di più, le qualità della voce e della presenza scenica. Lo abbiamo potuto constatare anche durante le ore dedicate al lavoro di costruzione del personaggio: alternando momenti performativi individuali con altri di gruppo, i risultati della messa in atto dei principi studiati, provando e riprovando, differenziavano il “dopo” dal “prima” rendendolo decisamente più interessante, coinvolgente e corposo. «Pulsioni e desideri dei personaggi devono trovare spazio», diceva Micheli; e continuava: «il modo in cui li esprimiamo cambia nel corso del tempo ma il sangue, la carne e i nervi sono gli stessi. Le opere, cioè, rimangono uguali, ma mutano nei vostri corpi». (S.B.)
La violenza come atto poetico
Siamo nello spazio C32, vicino alla baia di Forte Marghera. Negli anni, il forte ha subito variazioni radicali, pur continuando a essere un’isola verde stagliata contro la desolazione urbana. Il C32 è un’isola nell’isola: un intero capannone dedicato alle arti, la vera resistenza di questo forte. Qui si svolge il workshop di Angélica Liddell. La guerra che l’artista propone ai partecipanti non è utopica né romantica. Tutt’altro. Introduce il lavoro così: “Questa settimana, lavoreremo sull’odio e sul male. Se fossimo davvero liberi, ma non lo siamo, faremmo del male”.
Quando arrivo, i ragazzi si stanno preparando a iniziare. Sono stanchi ma l’aria è elettrica, discutono quali dettagli abbiano più resa, come possono personalizzare i momenti di improvvisazione. Ci si sposta nella sala prove, salgono sul palco. Angélica Liddell dà poche istruzioni. I laboratoristi sanno già che cosa succederà: metteranno insieme varie parti del lavoro svolto finora in un’unica coreografia. Cominciano in silenzio e per un’ora gli unici suoni che emettono sono quelli dei loro corpi che reagiscono alle azioni sceniche, fatta eccezione per una specie di appello rituale iniziale, a cui rispondono laconici “Non c’è”. A volte tengono il tempo con parti del corpo, altre interagiscono con un uovo sodo (ognuno ne ha a disposizione uno), altre ancora subiscono gli ordini dell’autrice-regista che, con la durezza di un sergente o di allenatore di boxe, li sprona a dare tutto in “30 secondi de violencia!!”.
Verso la metà, prendono un telo e lo usano come spazio di partenza per un ballo ossessivo – a cui poi si riferiranno come “taranta” – sulle note di musiche tradizionali di Haiti. Liddell gira tra gli “indemoniati” e, servendosi pure lei di un tessuto, li carica, li provoca, li dirige. Alla fine, usa lo stesso pezzo di stoffa per avvolgere testa e collo di ognuno e condurli, uno alla volta, al centro della sala. Si forma un ammasso di corpi agitati e stremati. Un po’ alla volta la musica cala, la sala torna alla calma e i corpi cessano il loro movimento sincopato. Liddell ordina di alzarsi e mettersi in fila come all’inizio, perpendicolarmente rispetto alla platea, poi di uscire. I ragazzi sfilano lungo il corridoio con sguardi spenti e stanchissimi. Bevono, si ripuliscono dal sudore e da resti di uova, poi tornano in sala.
Finito di somministrare violenza, Angélica Liddell si commuove. È il penultimo giorno di workshop e non le piacciono le “despedidas” (“addii”), per cui anticipa i saluti per evitare di soffrire troppo l’indomani. Ringrazia tutti, li bacia, augura buona fortuna per le loro vite artistiche. Fa strano il contrasto delle carezze e della delicatezza con quello che hanno attraversato e con quello che l’artista dice sulla violenza. Ma alla fine, è Liddell stessa a dire che “l'amore, il crimine e l'arte rappresentano l'impotenza della ragione. Sono la forza della bellezza”. (T.C.)
En Abyme di Tolja Djoković, testo vincitore del bando Drammaturgia Under 40 (2021-22) della Biennale College Teatro, dopo una prima mise en lecture nell’edizione 2022 del Festival, giunge quest’anno al debutto con la regia di Fabiana Iacozzilli: abbiamo incontrato autrice e regista per un racconto del processo di lavoro dalla scrittura alla messinscena, nonché sul loro percorso.
Come nasce il testo En Abyme e come si è sviluppato nel percorso della Biennale College?
Tolja Djoković: En Abyme è nato da un'idea che avevo da tantissimo tempo e dalla suggestione di alcune immagini. Avevo un grande interesse per il luogo geografico della fossa delle Marianne, era la mia ossessione e ho sempre atteso l'occasione per lavorarci. Poi mi hanno selezionata per il workshop della Biennale Teatro. Il tema era il Blu. Sono arrivata con un piccolo embrione di progetto, le immagini e poi la vicenda: la storia del regista James Cameron, il suo film Titanic. Con Davide Carnevali (drammaturgo e curatore del progetto Drammaturgia Under 40, ndr) abbiamo lavorato per dare un po’ di struttura. Il lavoro che abbiamo fatto in quei primi giorni è stato proprio quello di andare alla ricerca di una struttura. È stato fondamentale.
Che tipo di lavoro registico ha svolto per mettere in scena il testo anche in relazione alla mise en lecture dello scorso anno?
Fabiana Iacozzilli: Quando sono stata chiamata per curare la mise en lecture, c'è stato un approccio preliminare finalizzato a restituire la parola del testo. Abbiamo costruito una prima piccola relazione e l'abbiamo messa nello spazio. Ci siamo moss* all'interno di una geografia testuale che prevedeva quattro voci. Ho sentito da subito il bisogno di inserire una quinta voce: la voce dell'abisso, che abbiamo tradotto in musica. Nella mise en lecture le voci, che hanno suonato e risuonato, sono dunque le quattro voci umane e quella della musica, che ci ha accompagnati. Per quanto riguarda l’allestimento da me curato quest’anno, siamo ripartit* da quelle prime suggestioni. Abbiamo sentito, anche insieme a* collaborat*, la necessità di includere nella messa in scena le immagini dell'occhio della macchina da presa. Quel che racconta l’occhio è diventato il film dei ricordi di uno dei personaggi, la donna: personaggio già presente nel testo e che ha fatto sì che le voci diventassero sei. Per quel che riguarda la regia, in questa nuova fase è stato interessante cercare di sovrapporre i livelli che il testo di Tolja mi offriva.
Quali sono state le principali fonti d’ispirazione, i riferimenti testuali e scenici per il lavoro? T.D.: Sicuramente c'è il cinema. È un mio grandissimo interesse rispetto alla relazione che questo linguaggio può innescare in teatro. Il riferimento più importante è proprio James Cameron: aveva girato The Abyss, un film su cosa abita le profondità del mondo e dell'oceano, e poi Titanic. Parto sempre da quello che brucia in me, lavoro su quella tensione. In Titanic, c'è un rispecchiamento che è diventato molto interessante per la mise en lecture, per il testo. Rose, la protagonista del film, si vede in un ritratto mostrato in tv: si vede e si riconosce. Questo riconoscimento mediatico-medianico risuonava perfettamente con il mio testo, perché ho cercato di costruire un sistema di rispecchiamenti precisissimo. In En abyme – può sembrare assurdo –, risuona tantissimo il romanticismo tedesco, che ha un riferimento misteriosissimo, il “fiore blu”, un oggetto mistico che abita nelle profondità dell'inconscio e che fa vibrare l'opera d'arte. Non si vedrà mai nel testo, ma per me era ed è stato un pensiero forte: vedere un fiore nelle profondità dell'oceano…
F.I.: Ho letto tantissimo in questa fase di lavoro: con gli attori abbiamo ragionato molto. Abbiamo iniziato rivedendo Marnie di Hitchcock; poi un film bellissimo, poco conosciuto che si chiama Petite Maman. Per il lavoro fatto con i collaboratori – con lo scenografo, il disegnatore luci… – siamo partiti invece da un certo cinema di David Lynch, dalla fotografia di Gregory Crewdson. Per quanto mi riguarda, mi sono mossa avvicinando simili orizzonti. Devo dire che, fino a oggi, non avevo mai avuto a che fare con il video, tantomeno con il cinema a teatro. Ho cercato di non prendere ispirazione, di non pensare ad autori, registi, autrici e al modo in cui utilizzano il video a teatro. Volevo semmai entrare in quel mondo a modo mio, come avevo fatto per La classe, dove ho sperimentato il mondo delle marionette senza aver mai lavorato con il teatro di figura. Quindi ho utilizzato il cinema con la spericolatezza del neofita.
Quali sono i vostri maestri e come vi rapportate a loro?
F.I.: Parto da lontano. I miei maestri sono quelli che hanno inventato un teatro che ora non c’è più. Forse il maestro che più mi ha guidata, e che non ho mai incontrato, è Eimuntas Nekrošius. I suoi Anna Karenina, il Gabbiano sono state quelle rivelazioni che vivi a diciannove anni per cui dici: «mi piacerebbe riuscire ad avere questo rapporto con la bellezza». Per quanto riguarda invece i maestri che ho incontrato nel mio cammino, posso dire di provenire dalla scuola russa: ho studiato per anni con Natalia Zvereva e Nikolaij Karpov, quindi vengo dalla “azione scenica”, da quel tipo di studio della struttura. E un'altra persona che ho incontrato nel mio cammino è stata Emma Dante. Grazie a lei mi sono appassionata alla drammaturgia scenica: per me, oggi, il lavoro è principalmente quel che succede in scena. Infine, sicuramente, Antonio Rezza: per me un grandissimo maestro, per il suo rapporto con il confine, con il limite, anche con la morte, che mi interessa molto.
T.D.: Domanda difficilissima. Riflettendo sulla questione dei maestri, mi sono sempre sentita venuta troppo “dopo”. Ho fatto fatica a trovare una collana che costruisse la mia formazione. Dove mi sono formata? In alcuni incontri molto fortunati. Ho fatto il mio primissimo laboratorio di teatro con Chiara Lagani di Fanny & Alexander, con cui poi ho mantenuto una relazione molto stretta. Quando ho incontrato Roberto Latini, ho riconosciuto in lui un atteggiamento nei confronti della pratica scenica che per me è un riferimento ancora oggi. Poi devo molto alle edizioni di Biennale Teatro dirette da Àlex Rigola. Ho visto spettacoli che mi hanno cambiato la vita. Dunque ho un rapporto strano rispetto al “Maestro”: non mi sento di appartenere a nessuna classe, a nessuna scuola – e non è un bel sentire. Però poi si fanno degli incontri. Anche questo con Fabiana: per me è stato, oltre che bello e soddisfacente a livello professionale, molto istruttivo.
La Biennale crea dunque queste possibilità. Sono delle occasioni?
F.I.: Sì. Per me è stata l'occasione di incontrare un testo che altrimenti non avrei mai affrontato. È un dispositivo scenico veramente affascinante. Non è nuova drammaturgia, è oltre la nuova drammaturgia: è realmente il contemporaneo. A volte è doloroso confrontarsi con il contemporaneo, però come tutte le cose dolorose è anche estremamente stimolante. Richiede una messa in discussione anche di quello che sei abituato a fare. In questo senso, secondo me, la Biennale, nel premiare Djokovic e Garaffoni ha dato un segnale preciso. Una drammaturgia nuova c'è, esiste, va presa e manipolata.
Come sceglie i temi e gli spettacoli della Biennale Teatro?
Come aveva fatto nel cinema Krzysztof Kieślowski, ho deciso di declinare il progetto quadriennale della Biennale Teatro attraverso i colori (2021-24, ndr). La prima volta che sono venuto a Ca’ Giustinian, al momento di assumere la direzione artistica, ho visitato una mostra intitolata Le muse inquiete che ripercorreva le varie edizioni, anche del Festival Internazionale del Teatro: ho trovato interessante, più che esponesse il susseguirsi di spettacoli di epoche diverse, che testimoniasse la “fotografia” di un Paese che cambia attraverso il tempo. È stato questo che mi ha spinto a immaginare un percorso scandito da colori diversi: la necessità di raccontare quale fosse la condizione attuale rispetto al segno teatrale – non tanto per noi, oggi, ma anche per chi verrà dopo, fra trenta o cinquant’anni. Fin dal primo momento del mandato ho sentito questa forma di responsabilità.
Quest’anno la Biennale Teatro si è “tinta” di verde. La scelta rimanda a Emerald City ma per me rappresenta anche l’ossessione di cercare di far comprendere il senso e il valore del palcoscenico: qual è “l’epifania”, il prodigio che ogni volta si può compiere, restituendo al teatro la sua funzione – sostanziale e benefica – di macchina generatrice di dubbi collocata al centro di un’agorà. Probabilmente è un’utopia ma da questo punto di vista mi sento un po’ “come Dorothy”, pronto a cercare nuovi approdi.
Per quanto riguarda la scelta degli artisti in programma, quest’anno abbiamo costruito il Festival a partire dal Leone d’Oro ad Armando Punzo: ha rappresentato un faro di riferimento per illuminare una possibile strada da intraprendere per recuperare il senso di fare teatro; con il suo lavoro visionario e con la sua capacità di allacciarsi alla realtà.
Come si è sviluppato il Festival rispetto al progetto di partenza?
È sempre una sorpresa scoprire artisti che hanno una prospettiva altra rispetto alla mia o a quella del pubblico: perché significa che ci si può confrontare, e dunque alzare il tiro, spostando il proprio sguardo. Ciò accade anche e soprattutto in rapporto ai giovani e giovanissimi. Occorre sostenerli, è un dovere che purtroppo nel nostro Paese spesso non viene rispettato ed è rarissimo trovare territori che ne favoriscano la crescita. Così i nostri artisti, forse per paura, vengono in qualche modo indirizzati ad auto-perimetrarsi e a non sperimentare il dono dell’immaginazione a briglie sciolte.
È questa l’opportunità che vuole offrire il programma di workshop e fin da subito, infatti, mi sono preso molto a cuore il progetto Biennale College. Purtroppo, si tratta di un ecosistema creato quasi in laboratorio, di una “bolla” temporanea che dura pochi giorni. Ma credo sia il minimo che si possa fare per restituire ai giovani una dote in termini anche di fiducia e consapevolezza acquisita.
In quale modo è possibile incoraggiare il ricambio generazionale del pubblico?
Aprendosi, aprendo sempre, aprendo il teatro, soprattutto per quanto riguarda le istituzioni ufficiali come gli ex Teatri Stabili.
Da una parte, tenere separato il teatro di tradizione da quello di ricerca è nocivo, ma dall’altra, quando si provano a congiungere questi mondi, è necessario offrire coordinate di riferimento. Nel nostro Paese ci sono “bacini” distinti che non si conoscono fra loro e raramente s’incontrano. Come artista, quando vado nel teatro di una città, mi accorgo subito quando gli operatori si sono impegnati in un’azione di apertura nei confronti degli spettatori, perché osservano il tuo lavoro con uno sguardo differente, che va nutrito e aiutato. Com’è possibile tentare un rinnovamento in questo campo senza fornire gli strumenti e i sostegni adeguati?
Inoltre, il pubblico è sempre orientato dalla proposta di un determinato progetto: ogni teatro in un certo senso “crea” il proprio pubblico. Il pubblico della Biennale è molto consapevole, preparato. In questo senso, ho raccolto a mio modo il testimone delle direzioni artistiche – anche molto differenti fra loro – che mi hanno preceduto, da Àlex Rigola ad Antonio Latella. Dopo, non so cosa ci sarà, ma sono certo che gli spettatori cambieranno di conseguenza.
Come vede la relazione della Biennale Teatro con Venezia e il suo comprensorio? Come vorrebbe che si sviluppasse?
Da tre anni ragioniamo sulla possibilità di aprire e frantumare la “bolla” che aleggia attorno al centro storico di Venezia, portando il teatro laddove non c’è. Per esempio, accade con le creazioni site-specific: costruire performance nei luoghi pubblici significa vedere le reazioni più inconsuete e contribuire a smantellare le modalità di fruizione “televisive” correnti. Occorre chiedersi: come posso entrare in relazione con quella persona sapendo che è altro da me? È sempre lo stesso tentativo: aprire, aprirsi, entrare in ascolto, condividere. Credo ci sia bisogno di far capire che il teatro non è un bene di lusso, ma è per tutti, fruibile da ognuno, è ovunque e fa parte di noi. Anche questa chiaramente è un’utopia, ma noi siamo qui, e navighiamo tra i miraggi.
Che ruolo ha per lei il workshop di critica nella Biennale Teatro e che cos’è secondo lei la critica oggi?
Ho vissuto – prima da spettatore e poi da artista – la stagione della grande critica: aveva spazi sui giornali, potere, ogni volta c’era attesa di leggere la recensione non appena pubblicata. La critica è importante per gli artisti, che possono vivere in una eccessiva solitudine: e il rapporto col critico può rappresentare invece un confronto effettivo, una possibilità di dialogo. Poi, è successo qualcosa: un progressivo ritrarsi nei propri spazi, un mettersi all’angolo che è percepibile in vari contesti e settori. E infine è scomparsa anche questa possibilità. A un certo punto la critica è diventata “di costume”, e per certi versi lo è ancora. Penso dunque sia indispensabile oggi cercare di ridare senso a tutte le figure che appartengono al teatro, perché è qualcosa che si fa insieme, un lavoro di squadra: drammaturghi, registi, critici – naturalmente curando e rispettando le competenze di ciascuno. Ecco perché da tre anni sto combattendo per avere questo laboratorio di critica teatrale: sarà chimerico ma – come per gli altri workshop – è concepito per offrire altre possibilità espressive rispetto a quelle esistenti. Ha ragione Armando Punzo: cavalchiamo l’utopia, ne abbiamo bisogno. E quindi, finché mi sarà consentito, continuerò a cercare di realizzarla a briglie sciolte.
Come sono stati scelti i temi e gli spettacoli della Biennale Teatro?
Come ogni anno, siamo partiti dal colore. Nel 2023 è il verde, con una sfumatura particolare: quella dello smeraldo, poi “traslata” in inglese per far risuonare il riferimento a Emerald City, la capitale del regno del Mago di Oz. Ma ci sono anche altri richiami. Anzitutto, il nome della protagonista della storia, Dorothy: viene dal greco δῶρον (dôron) e dunque sta a indicare la vita come un dono. Così, abbiamo interpretato Emerald nei termini di una metamorfosi e di una rinascita: un ritorno alla vita dopo i due lunghi “inverni” che abbiamo affrontato a causa della pandemia. Nella cristalloterapia, inoltre, il verde dello smeraldo ha una funzione molto importante: permette di superare i propri limiti e le proprie paure, ed è ciò che accade a Dorothy quando incontra i suoi compagni nel percorso verso la Città di Smeraldo. Mi viene da pensare che, in un certo senso, così fa anche Alice: per entrare nel Paese delle Meraviglie, insegue il Bianconiglio finendo in un tunnel che la porta da tutt’altra parte. Si tratta, insomma, di scoprire un Altrove che permetta di vedere orizzonti diversi e nuovi. Naturalmente, questo è un processo che cambia chi lo compie, ed è quel che ci interessa di più. Abbiamo cercato di dipanare questo fil rouge – anzi, nel nostro caso, fil vert – fra gli artisti e i lavori poi presentati alla Biennale Teatro 2023.
Per quanto riguarda la scelta degli spettacoli, c’è un unico modo di farla: guardandoli. Appena finito il Festival, partirò per Avignone e poi per altre rassegne e festival, dove sono certo avrò occasione di scoprire progetti e artisti interessanti per il prossimo anno. Sia io che Stefano viaggiamo molto, ognuno osserva con attenzione e poi ci confrontiamo: la regola che ci siamo imposti è che ogni proposta debba essere condivisa da entrambi.
Dopo tre anni di lavoro, cosa vuol dire per un artista indipendente collaborare con un’istituzione importante come La Biennale? E viceversa che cosa può fare secondo lei un’istituzione per gli artisti indipendenti?
È un percorso che mi ha permesso di fare una grande scoperta, per me una rivoluzione: iniziando a guardarmi intorno in questo ruolo, mi sono accorto che mi entusiasma molto il lavoro di scouting. Come uomo e come artista, mi ritengo fortunato perché sono riuscito a realizzare quel che desideravo, quindi adesso credo che la mia missione sia quella di dare agli altri la possibilità di fare altrettanto.
Un importante merito de La Biennale è garantire grandissimo spazio ai giovani artisti italiani. E voglio sottolineare che, nella programmazione, non vengono collocati – come spesso accade – in un’apposita “sezione a parte”, ma sono parte integrante del cartellone, fianco a fianco ad artisti già riconosciuti e di grande calibro. È un grande vantaggio, perché offre l’opportunità a operatori e critici di vedere i loro lavori; mentre naturalmente, dall’altro lato, ciò significa dare ai giovani artisti una maggiore responsabilità. In questo contesto, abbiamo “ereditato” due percorsi preesistenti – per favorire la crescita della regia e per la drammaturgia – e li abbiamo integrati con il bando Performance Site-specific, più aperto in ottica internazionale.
Da un altro punto di vista, stiamo cercando di “fare scouting” anche rispetto agli spazi e ai luoghi, non utilizzando soltanto le location dell’Arsenale: per esempio, è stato così nella lunga ricerca che ha condotto all’allestimento dello spettacolo di FC Bergman in un hangar a Marghera. Spero che chi verrà dopo di noi raccoglierà il testimone e possa continuare questo percorso.
In che modo è possibile incoraggiare il ricambio generazionale del pubblico?
Al di là del biglietto a prezzi “politici”, più accessibile per i giovani, si potrebbero adottare strategie simili a quelle diffuse all’estero. Per esempio, in Francia, all’interno dei teatri ci sono persone il cui compito specifico è sensibilizzare e fidelizzare il pubblico più giovane, a partire dal territorio, addirittura dal quartiere in cui si opera. Un’altra possibilità è quella di proporre degli abbonamenti che consentono l’accesso agli spettacoli a costi più bassi. Ad ogni modo, il discorso è complesso: il pubblico per me non ha età, spesso accade che alcuni spettacoli immaginati come più “vicini” alle fasce giovanili attirino invece persone più grandi, e viceversa.
Che ruolo ha per lei il workshop di critica nella Biennale Teatro e che cos’è secondo lei la critica oggi?
Il ruolo della critica è importantissimo tanto più ora, perché a mio avviso si sta perdendo. Appartengo a una generazione che ha avuto a che fare con i più illustri maestri della critica, persone che hanno segnato e talvolta anche condizionato le scelte artistiche. Avevano un peso determinante.
Uno dei primi atelier che abbiamo voluto fortemente è stato proprio questo workshop, perché ritengo che tutti noi abbiamo bisogno di qualcuno che interpreti il teatro e possa fare da tramite tra l’artista e lo spettatore. Oggi è facile sentirsi un critico: basta scrivere un post sui social network o su un blog, ma spesso manca una preparazione teorica ben fondata. Anche perché bisogna tener conto che – paradossalmente, a differenza di ciò che accadeva con la carta stampata – attualmente ogni testimonianza lanciata in rete diventa un documento che rimane, un tassello di un enorme archivio.
È soddisfatto di questa edizione?
Secondo me c’è, e si avverte, uno sguardo, anzi una “crepa”, una fenditura che permette d’infiltrarsi a largo raggio, fra forme, opere, percorsi completamente differenti, anche molto diversi da quelli a cui siamo abituati. Noi li offriamo: poi naturalmente sta a ciascuno operare delle scelte, a seconda della propria sensibilità. Trovo, in un simile approccio, una grandissima opportunità offerta da La Biennale: questa istituzione ci sta dando la possibilità – anche affrontando costi di norma difficilmente sostenibili in Italia – di far vedere la migliore produzione teatrale che gira in Europa o nel mondo a un pubblico che non sempre, invece, ha molta possibilità di viaggiare.