Il colore scava a mani nude nella terra-madre di ciò che è stato, e che la nostra memoria conserva, nel sonno fragile delle cose passate.
Lo fa con l’impeto di un uragano, irrompe nell’equilibrio del presente e trasporta altrove: in un tempo sospeso, dove ciò che è morto risorge, mostrando il rigoglio di una forma altra.
Così Emerald ci sottrae dalle fondamenta veneziane, e i nostri passi – calzanti lucide scarpette rosse – si fanno placidi su un verde prato d’infanzia e di giochi; i sensi si acuiscono ed è chiaro l’odore pungente, il profumo di sottobosco e di ciò che quest’ultimo cela.
È il potere degli istinti più reconditi, che si insinua nella mente e vi affonda le proprie radici.
La sua voce è il sussurro dell’incanto e del mistero primo, risveglia mondi intimi, e pone dinanzi a una realtà che è da sempre in noi contenuta, ma mai stata esplorata.
La forza del verde deriva dal suo nascere esternamente all’uomo, nella natura vergine del suo espandersi, nell’essere un’antica città, matrice del tutto, indispensabile.
Ma la vita umana e il verde si fondono inevitabilmente: entrambe le realtà si adattano l’una all’altra, imparando a viversi.
Di una, permarranno insolvibili arcani ed enigmi, dell’altra sarà costante la lotta nel risolverli.
Come il colore verde, il Teatro si fa seme di un cambiamento, di un risorgimento sensoriale; librando il nostro io e il vissuto verso nuove chiavi di lettura, da utilizzare per osservare con sguardi altri quello che siamo, oltre la carne, verso lo spirito.
Fino a mostrare che Emerald cresce dentro di noi: siamo città inesplorate, il teatro ci spoglia e mostra. Espone.
Alice Negri
Un giugno mite ci riscalda, mentre i raggi del sole si riflettono sull’acqua restituendo accecanti bagliori. Il verde della laguna sembra estendersi tutt’attorno. È l’incanto di Venezia che, con i suoi fantasmi e utopie, ci trasporta in un altrove, un po’ come capita quest’anno alla Biennale Teatro: nata sotto il segno di Emerald – ispirazione dal Mago di Oz – questa cinquantunesima edizione è un invito ad addentrarsi nel potere immaginifico dell’arte scenica per abbandonarsi al sogno e ritrovare fiducia nella possibilità di cambiamento.
È in virtù della ricerca attorno al senso del teatro e del suo potere visionario che sono stati assegnati i due Leoni 2023: rispettivamente il Leone d’Oro alla carriera al regista Armando Punzo, pioniere delle esperienze di teatro in carcere, e il Leone d’Argento a FC Bergman, ovvero Marie Vinck, Thomas Verstraeten, Stef Aerts e Joé Agemas, il collettivo belga che con le sue creazioni ripensa lo spazio scenico per espanderlo e romperne i confini. La cerimonia di premiazione si tiene a Ca’ Giustinian, un palazzo mascherato di modernità ma che accoglie il pubblico nella classica Sala delle Colonne. La platea è gremita di giornalisti, operatori e artisti, mentre al centro si posizionano i due Direttori Artistici Stefano Ricci e Gianni Forte e il Presidente Roberto Cicutto per i saluti istituzionali. I primi a salire sul palco sono i componenti di FC Bergman per il Leone d’Argento, assegnato all’originalità di una proposta estetica che – come dichiarano gli stessi artisti durante l’incontro finale a cura del giornalista e critico Andrea Porcheddu – si ispira soprattutto al cinema e alle arti visive (con riferimenti come Jean-Luc Godard e Wes Anderson) e meno al teatro e alla danza, sebbene il collettivo guardi a Romeo Castellucci e Pina Bausch. Punto di forza è soprattutto un linguaggio visionario, costruito attraverso la contaminazione tra tecnologia e immagini radicate nella cultura e nella civiltà occidentali. Questo si riversa in scena in «vorticosi tableaux vivants» allestiti in spazi non convenzionali dove a parlare sono il movimento e l’immagine. «Gli FC Bergman flirtano con i limiti del fattibile – dichiarano ricci/forte – creando delle apocalittiche favole moderne, spesso senza parole ma di sorprendente forza plastica e potere evocativo». Il collettivo belga saluta rifacendosi a Le città invisibili di Calvino, per un ringraziamento a tutti coloro che ancora perseverano «a creare città reali e città fantastiche».
Poi è la volta della consegna del Leone ad Armando Punzo e al virtuoso progetto che da trentacinque anni porta avanti presso la Casa di Reclusione di Volterra, facendone un luogo di possibilità e di libertà. L’artista dichiara di non amare la definizione di “regista” e di sentirsi più un “organizzatore di possibilità”: «Viviamo inseguendo prospettive nichiliste – afferma raccontando la sua ricerca – e inizialmente pensavo fosse un problema del teatro. È invece una questione che riguarda la realtà, come se non riuscisse a vedere oltre sé stessa. Dentro il carcere come luogo di massima chiusura e annichilimento cerco allora di dimostrare, e forse questa è la mia “condanna”, che il teatro può creare spazi di libertà». Per i Direttori della Biennale Teatro si tratta di un’utopia culturale, «una forma visionaria di comunicazione che distilla un linguaggio ricostruito all’ombra di un pregiudizio: lo spirito e la fantasia non hanno sbarre che contengano ma, soprattutto, siamo certi che siano gli Altri i prigionieri condannati ad un perimetro?». Punzo chiude con i ringraziamenti rivolti al Comune di Volterra e alla Regione Toscana che, ci tiene a rimarcare, non sono formali ma una sentita riconoscenza per la fiducia e il sostegno, fin dall’inizio, a un percorso tanto delicato che, altrimenti, non potrebbe esistere.
Al momento della foto finale, è una moltitudine di persone a salire sul palco, tra collaboratori e attori-detenuti della Compagnia della Fortezza: è la manifestazione della forza di un progetto che ha saputo creare una comunità unica e attiva, superando i limiti dell’impossibile.
Il Leone d’Oro, ambito riconoscimento nato all’interno della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica, in teatro è stato istituito nel 2006 (e solo come premio alla Carriera), sotto la direzione artistica di Maurizio Scaparro, a distanza di 72 anni dalla prima edizione del Festival Internazionale del Teatro e 59 anni dopo il primo riconoscimento omologo nel campo del cinema.
A differenza della Mostra, alla Biennale Teatro non c’è alcuna giuria ma sono gli stessi direttori artistici ad attribuire i premi, che diventano così anche manifestazione della loro linea di ricerca. Sorge dunque spontaneo domandarsi, al di là del dato fattuale e della cerimonia che lo sancisce, quali siano le visioni e le idee di teatro che si esprimono nella premiazione.
Negli anni della direzione di Scaparro (2006-09), è la volta di Ferruccio Soleri, celebre Arlecchino strehleriano (Leone d’Oro 2006), poi di Ariane Mnouchkine (2007) – regista del Théâtre du Soleil e prima donna a ottenere il premio –, dell’autore e regista libanese Roger Assaf (2008) e dell’attrice greca Irene Papas (2009). Si tratta di scelte significative perché indicano, per esempio, il tentativo di affiancare presente e passato a partire da un patrimonio teatrale-culturale collettivo da caricare con nuove suggestioni.
Successivamente, Àlex Rigola (Direttore 2010-16), desideroso di oltrepassare la tradizione, invita a «giocare e restare organici, vivi» sostando nelle contraddizioni della pluralità di un mondo inafferrabile e a nutrirsene per amplificare la potenzialità creativa. A motivare i “Leoni” conferiti in questo periodo non è un’idea univoca di teatro, bensì la portata suggestiva e vivificante dei mondi vari e molteplici che gli artisti suggeriscono: dalla straordinaria visionarietà del regista-compositore svizzero Christoph Marthaler (2015) ad Angélica Liddell (Leone d’Argento 2013), attrice e regista che intreccia poesia e performance anche usando la Body art; da Thomas Ostermeier (2011), ex enfant prodige e terrible della scena tedesca al teatro “pop-rock-punk” degli italiani Babilonia Teatri (Leone d’Argento, 2016).
Poi, durante le edizioni della Biennale Teatro dirette da Antonio Latella (2017-2020) si assiste a un cambio di rotta, che si concretizza nell’individuazione di figure operanti in ambiti o ruoli spesso considerati marginali nella scrittura e produzione di uno spettacolo, ma assolutamente sostanziali: per esempio, la scenografia (Katrin Brack, Leone d’Oro 2017), il sound design (Franco Visioli, Leone d’Oro 2020), la pedagogia (Alessio Maria Romano, Leone d’Argento 2020).
Il quadriennio 2021-2024, tinto di molteplici sfumature cromatiche dagli attuali Direttori Stefano Ricci e Gianni Forte, indica un percorso di rigenerazione dove il Festival diventa mezzo d’incontro tra esperienze diverse accomunate dalla necessità di farsi «voce che apre» e va contro i canoni, le consuetudini, anche le oppressioni del sistema in cui viviamo. Così, i riconoscimenti che stanno conferendo attestano il valore artistico e al contempo sociale della ricerca. Non sorprende, perciò, che a ricevere i Leoni siano figure tanto divergenti tra loro quanto accomunabili nel fitto intreccio d’etica e d’estetica che ne marca la ricerca. A partire dal regista polacco Krzysztof Warlikowski (Leone d’Oro 2021) e Kae Tempest (Leone d’Argento 2021), poeta e performer: entramb* smascherano il tragico come destino comune a tutti gli individui.
Sulla stessa linea si possono rintracciare i motivi dei premi della cinquantesima edizione, alla regista brasiliana Christiane Jatahy (Leone d’Oro 2022) e all’artista finlandese Samira Elagoz (Leone d’Argento 2022). In contraddizione con i presupposti della tragedia antica, in tutti e due i casi, si esplora il tema dell’universalità della violenza, denunciandone la perpetrazione sistemica. Jatahy mescola in presa diretta il linguaggio cinematografico e teatrale, proponendo un uso del corpo che si muove tra video e palcoscenico, con l’effetto di uno spaesamento che sottolinea liminalità scenica e politica. Liminare è anche il corpo-mente di Elagoz che, segmentato e vissuto nella sua transizione, esplora fluidamente le sovrapposizioni tra le tematiche dell’autorappresentazione virtuale, dell’affettività e del desiderio nel contesto della società patriarcale e delle sue ricadute nella propria esperienza corporea.
Simili sensibilità verso valori sia artistici sia politici traspaiono anche nel conferimento, quest’anno, del Leone d’Oro ad Armando Punzo e del Leone d’Argento a FC Bergman: con queste scelte si ribadisce che il teatro non è e non può essere azione monadica, ma deve aprirsi su scenari e tematiche sociali, celebrando con forza le istanze del contemporaneo insieme alle sue aporie.
«Raphèl mai amècche zabì almi!». Immaginiamo l’infernale Nembrot urlarlo – forse un po’ delirando – a Dante e Virgilio. Per quest’ultimo, ascoltare il fondatore di Babele è solo una perdita di tempo, le sue parole sono un intruglio che non appartiene a nessuna lingua. Peccato che per noi, oggi, quella figura avrebbe molto da dire. Peccato: perché non si tratterebbe di un monumento celebrativo alla nostra arroganza o di qualche torre che, alla fine, al cielo c’è arrivata. Invece, di Nembrot riconosciamo l’incapacità, quel suo essere condannato da opere che, in fieri, si dimostrano troppo grandi per le sue facoltà: quel motore d’attrito lo avvicina a noi, per come digrignamo i denti contro i nostri limiti nel rapportarci al presente.
Lo raccontava con dilagante sconforto Charles Kaufman (già) quindici anni fa con Synecdoche New York, film dove un regista teatrale tenta l’impossibile: creare una miniatura esatta della Grande Mela all’interno di un capannone. Qui, a giocare al “macroscopico” si incorre nel contrappasso: dove più tentiamo di dar forma alla realtà per dominarla, l’azione si curva, e ci troviamo controllati dalle stesse dinamiche che abbiamo contribuito a creare. Trovo curiosa la scelta di Kaufman, di affidare al teatro questa impresa “alla Nembrot”: perché, se proprio esiste un contesto che, nella sua effimerità, costringe il mondo in una sineddoche dove spazio, tempo e persone si fanno simboli, è proprio la scatola chiusa del palcoscenico.
Questi non sono che spunti che ci aiutano ad avvicinare il percorso di FC Bergman, Leone d’Argento 2023. Fondata nel 2008 da Stef Aerts, Joé Agemans, Bart Hollanders, Matteo Simoni, Thomas Verstraeten e Marie Vinck, la compagnia fiamminga è oggi a quattro voci. Quello che traccia è uno straordinario percorso di crescita artistica: perché, mano a mano che il suo successo si è fatto internazionale, l’interesse si è spostato sulla genesi di site specific sempre più ambiziosi e “fuori scala”. Proprio come le “città-sineddoche” di Kaufman, dove i confini della miniatura si smaterializzano per assecondare la dismisura del reale, FC Bergman trova scomoda la contenutezza di un palco tradizionale, puntando a creare contesti il più possibile aderenti al reale. Che si tratti di un segmento di un'autostrada (Terminator Trilogy, 2012) o delle case costruite apposta per le performance (300 el x 50 el x 30, 2011 e JR, 2017), la compagnia cerca comunque di centrare l’inquadratura su delle vere e proprie repliche di specifici paesaggi urbani: spesso zone dismesse, liminali, in cui risalta ancor di più lo scarso controllo esercitato dall’umano sullo stesso “mondo artificiale” che ha prodotto, fatto sempre più di vuoti.
Solo mappando la totalità di questi site specific – ora sparsi su suoli internazionali – si può avere l’impressione di quanto congruente e impegnativo sia il progetto di FC Bergman: non si tratta di ambienti propedeutici alla sola performance, ma costituiscono un vero e proprio “parco a tema” di installazioni, che intrattengono e codificano un’idea estetica molto chiara. Ecco che da questa pluralità emerge un tipo di fruizione che forse pertiene più al cinema che al teatro. Si intravede così una pista di cui non è facile tenere traccia, ma che c’è: scrutando in profondità simili scenari spaesanti, affiora un ordito che, nella sua complessità, svela un “FC Bergman-verse” che dà l’impressione di poter osservare dal vero su scala vastissima, per non dire planetaria.
E in tutto questo, che ruolo hanno i performer? I personaggi interpretati non hanno vita facile nelle narrazioni del collettivo. La loro presenza, piccola, quasi trascurabile a confronto con alcune delle installazioni incarna pienamente quel senso di smarrimento da parte di un’umanità che non riconosce più una funzione negli stessi spazi che ha creato.
È il caso di Het Land Nod (alla Biennale Teatro 2023 il 17 e 18 giugno): in questa riproduzione minuziosa del Museo Reale di Belle Arti di Anversa, le azioni confuse e impacciate di guardie e dipendenti consentono una carrellata sui tanti volti del fallimento. L’impossibilità di assolvere le proprie mansioni rende i personaggi delle creature carnevalesche, ribaltate nella loro insignificanza, che continuano a oscillare tra umorismo grottesco e violenza incontrollata.
Staef Aerts intende il museo come una sorta di Europa in rovina: questo ulteriore approccio permette di vedere – nel confronto tra l’antropomorfo infinitamente piccolo e l’infinitamente grande della sua realtà geopolitica – l’ombra incombente di una Babele frammentata, abitata da individui che hanno perso qualsiasi coordinata utile a comprendere la propria funzione sociale. È la presa diretta su un mondo di persone sole, che nell’incapacità di trovarsi e comprendersi non sono in grado di comunicare; non dovrebbe sorprendere, allora, che la parola venga abbandonata in molte delle opere del gruppo, quasi a intendere che nessuno possa più accedere al linguaggio.
C’è una chiosa da fare relativamente alle figure che abitano il teatro del collettivo belga. Nel corso di Sheep Song (2021) – spettacolo di quelli muti, compensato però da un’iconografia proteiforme che si muove dall’ovidiano al pop – una marionetta fa più volte capolino in scena. Per certi versi, è come la “città-sineddoche” di Kaufman: di per sé è solo una replica, ma, nell’assumere il ruolo di rappresentare l’inerzia dell’umanità, almeno ha qualcosa da dire. Il burattino inveisce contro Dio, lo insulta, lo brucia: e, così facendo, si mutila. Forse l’immaginario di FC Bergman deve essere inteso come conseguenza di una hybris conflagrante, che ha lasciato “gusci” di persone rassegnate. L’ardore, la convinzione di fare e di colonizzare si sono estinti: ne emerge un pessimismo che si interroga su ciò che rimane, sensibilizzando una forma di consapevolezza che non prevede salvezza alcuna.