Raccontare la strada dell’estinzione attraverso l’espulsione dell’umanità dal palco. Produrre un’altra realtà, materica e astratta, anziché rappresentare – più vera del vero – quella esistente e catastrofica. Pensare il pubblico al di là dei cliché partecipativi correnti, che ricalcano i canoni dell’essere presenti solo in quanto protagonisti attivi, per recuperare una forma di engagement più profonda: portando all’estremo la pratica propria della spettatorialità, cioè la mera, ma oggi quanto mai preziosa, contemplazione.
La relazione teatrale, se privata del suo interlocutore (l’attore), non si depotenzia ma sembra ancora più forte perché mette davvero in contatto con l’altro da sé – che è in scena, che ci è di fianco in platea, che è anche dentro di noi.
Non è vero che per fare teatro si può togliere tutto tranne qualcuno che guarda e qualcuno che fa: quando propone opere senza attori, la Biennale Teatro 2023 racconta anche questo. E, dunque, pone domande scomode e nuove: quanta energia s’impiega per l’allestimento di un’opera scenica? Come impatta la sclerosi delle tournée sull’ambiente, cosa ci spinge a spostamenti – spesso ingenti – di persone e cose da un capo all’altro del globo? Quanto è sostenibile la modalità con cui abbiamo vissuto finora il mondo dello spettacolo?
Il filtro spiazzante dell’Emerald – che abbiamo ormai imparato a conoscere – in questi giorni assume le connotazioni del green, spesso inedite per il teatro. S’illumina così, incrociando etica e ricerca, un confronto tanto inatteso quanto urgente: quello fra la scena contemporanea e la catastrofe ambientale che stiamo vivendo.
Roberta Ferraresi
«It’s a canon event» è da qualche settimana il trend sui social attinto da Across the Spiderverse, successo Sony che racconta di supereroi dediti a rimettere a posto le loro tragedie. Ma forse non è così facile rinunciare alle versioni presenti di noi, per quanto temprate dal dolore. La misura della normalità sta anche in questo: in quei processi mentali così perversi che, se davvero fossimo posti di fronte alla possibilità di cambiare il passato, finiremmo col preferire che quei drammi si verificassero comunque, per tornare alla posizione che occupiamo oggi.
A partire dall’insostituibilità dei nostri centri nefasti, Mattias Andersson distilla la sua idea di multiverso a teatro con Vi som fick leva om våra liv (“Noi che abbiamo rivissuto le nostre vite”). Durante lo spettacolo, emerge la sua domanda autentica, in un certo senso implicita nel titolo quanto nel testo: non cosa cambieremmo nelle nostre vite ma se, così facendo, varrebbe la pena mutare le persone che siamo diventate. Perché quella del regista svedese è una nostalgia “attivante” che permette di collocarsi nell’hic et nunc, al presente.
La messinscena è un documento di geografia culturale che parte da un’inchiesta a 137 persone su come muterebbero loro stesse, passando per riflessioni scientifiche, ricognizioni sociologiche e così via. Questa passione per inquisire e chiedere che effetto avrebbe la possibilità di cambiare il passato retrospettivamente potrebbe sembrare sdoganata e quasi legnosa (per esempio, rispetto al meccanismo del cinema alla Everything Everywhere all at once, ultimo Oscar per il miglior film); ma bisogna tenere conto che il cuore dello spettacolo, invece, è “cosa saresti disposto a fare per rimanere te stesso”. Lo si avverte nella carne, tra i tic e le nevrosi di nove attori che si fanno a turno portavoce degli intervistati, ogni tanto muovendosi istericamente al ritmo Radioactivity dei Kraftwerk.
A parlarci dell’urgenza di rappresentare il conflitto tra variante e versione, realtà e multi-, sta proprio la presenza dei performer: da catalizzatori di diverse storie, tatuano sulla loro presenza scenica la compresenza di un’umanità identica a sé stessa, dove anche le singole storie risuonano in quelle di altri – come se le 137 alternative fossero un unico macro-individuo, sparpagliato nelle scelte intraprese da ciascuno, convergendo intorno alle stesse svolte esistenziali. Il quadrato del palcoscenico che si presta a essere una sorta di zona-mondo, si fa spazio icastico: dei movimenti delle vite di ognuno, fra linee che si contraggono, si scontrano, continuano a perdersi in qualcosa di inconcepibile come la realtà.
Al centro, in quello schermo-specchio dove fluiscono i sopratitoli, appare una promessa nietzscheana: «ogni indicibilmente piccola e grande cosa della tua vita dovrà fare ritorno a te, e tutte nella stessa sequenza e successione». Il ché, di per sé, dovrebbe affliggere l’uomo in quanto prospettiva claustrofobica dell’eterno ritorno; ma Andersson sembra provare a guardare alla pretesa egoistica di voler rimanere in noi. Come se, in quella profezia, ci fosse un raccordo armonico, di non doversi mai rimpiangere – o come potrebbe spiegarsi il Rien de rien di Edith Piaf che a un certo punto invade la scena?
Le testimonianze richiamate sul palco sembrano avere un punto di vista comune: quello di chi la vita la sta già sentendo alle proprie spalle, che a quella nostalgia dovrà pur trovare un rimedio. Forse. In Vi som fick leva om våra liv, quando gli interpreti abbandonano il quadrato centrale, si immergono nel pubblico tutto intorno, sedendosi tra di esso, rendendo la nostalgia un fatto comunitario. Proprio in virtù di questo baluginio di un sentimento globale, viene difficile aderire a una forma di closure. Prima dei “titoli di coda” che avvertono di come le testimonianze citate siano vere, c’è uno sfarfallare dei sopratitoli, fino al buio finale, dove il primo dei racconti inscenati ricomincia a ripetersi, troncandosi a metà. Andersson, così, risolve la nostalgia dilatando il divenire: la fine della storia è un inizio dall’altro verso, sfiorando il vuoto al di fuori del quadrato.
Per le strane alchimie della vita, mi sono trovato, in tempi recenti, a frequentare spesso la Svezia e in particolare Göteborg, città in cui ha mosso i primi passi teatrali Mattias Andersson, regista attualmente direttore del Dramaten di Stoccolma. A lui dobbiamo Vi som fick leva om våra liv (“We who lived our lives over”) visto al Teatro alle Tese. Entrando, il pubblico trova spazio in due gradinate montate nei lati “corti” di quello che potrebbe essere una sorta di campo da pallavolo: a delimitare le due zone vi è, anziché una rete, un lungo schermo sostenuto a un paio di metri d’altezza. Qui si proiettano nomi, età, città d’origine delle 137 persone intervistate dal regista e dalla compagnia per dar vita alla drammaturgia originale dello spettacolo, tutte invitate a rispondere alla stessa ipotesi: e se poteste rivivere la vostra vita?
Non sto qui ad analizzare nel dettaglio lo spettacolo – altri lo faranno anche meglio di me. Vorrei però fare un paio di considerazioni. Andersson, che si è fatto notare alla guida dell’irriverente e alternativo Backa Teater di Göteborg, ha portato nel supertradizionale Dramaten (il teatro Nazionale svedese) il suo metodo di ricerca sociale, fatto di indagini e interviste dirette. Prassi ormai abusata in molte drammaturgie europee – dal Belgio alla Spagna, dalla Francia alla Germania fino all’Italia, dove si moltiplicano gli esempi – in nome della spasmodica ricerca di realtà in scena. Cosa piuttosto nuova, invece, per la pudica Svezia, dove raramente e faticosamente si mettono in piazza i propri problemi. Così, posso immaginare l’impatto che un simile spettacolo abbia avuto sul pubblico locale: mostrare scontentezza nella società del benessere è indice di fallimento, tanto più se i problemi o addirittura il declino personale si intrecciano con il consumo d’alcol, pratica demonizzata nel Paese ma quanto mai diffusa, tanto da essere una vera e propria piaga sociale.
Dunque Andersson, coi suoi bravi attori, affonda le mani in tutto ciò, mostrando uno spaccato umano (e geografico) tutt’altro che consolatorio. Certo, gli italiani che – come diceva Flaiano – sono “condannati alla realtà”, possono alzare il proverbiale sopracciglio di fronte al disagio svedese: quanto a disagio, e a retorica conseguente, a noi non ci batte nessuno.
Ma c’è un altro elemento contraddittorio che forse vale la pena far emergere, ed è legato alla natura della domanda iniziale. Ossia quel riflettere sulla vita che passa, che si consuma, che si spreca tra piccole conquiste e grandi perdite, tra sogni e violenze, tra incanto e disincanto. Ed è la natura quasi cechoviana di quanto emerge. Il sognare un’altra esistenza, un’altra vita, quel perdersi per ciò che avrebbe potuto essere e, inesorabilmente, non è stato. Quel “se”, quell’ipotetica seconda possibilità, cara a zio Vanja come alle tre sorelle. Per comprendere tutta l’amarezza di questa tensione forse occorre essere un po’ in là con gli anni, forse bisogna aver girato la boa e avvertire il tempo che passa ed è definitivamente passato. Non è uno spettacolo per giovani, verrebbe da dire a proposito di Vi som fick leva om våra liv: non è materia per chi ancora sogna, per chi spera, per chi quotidianamente combatte per la faticosa costruzione del sé. Allora un manto d’amarezza morbidamente avvolge ogni singolo spettatore, una quieta disperazione – tutta svedese – contagia anche il pubblico italiano. Perché non c’è niente da fare, un’altra vita non ci sarà. Forse Ingmar Bergman aveva già detto tutto, forse Lars Norén ha portato più avanti l’indagine, forse Ruben Östlund ha approfondito certi temi coi suoi recenti film, ma certo lo spettacolo di Mattias Andersson ha contribuito e non poco a raccontare il lato oscuro della Svezia d’oggi.
Aspetto seduta sul pozzo di un campiello. L’assistente di produzione arriva, ci stringiamo la mano e affrettiamo il passo. Il tempo di due chiacchiere e già varchiamo la soglia. Eccoci, sotto l’ala de La Fenice per il workshop di Monica Capuani e Francesco Morosi.
Entriamo dall’ingresso laterale, per gli addetti ai lavori. Penso che è bello, essere addetti ai lavori dell’arte. Dappertutto incrociamo persone affaccendate, sembrano capi di stato o alti funzionari, con sotto braccio plichi di spartiti musicali. Un corridoio, poi la porta. Silenzio. Una voce energica lo fende con sicurezza narrativa. Sono da poco passate le dieci e mezza. Nel resto della mattina faremo “archeologia teatrale” sotto la guida incalzante di Francesco Morosi, ellenista, specialista in teatro antico. Le sue parole accendono il ricordo di studi classici, riattivano l’entusiasmo del novello liceale incantato dalla tradizione. Di più, fanno apparire i fili che collegano le cose tra loro e illuminano il pensiero. A momenti sembra che Eschilo, Sofocle ed Euripide debbano apparire tra noi per la pausa caffè. Morosi tematizza le tragedie antiche, le colloca nel loro contesto storico e politico, spiega di quali istanze siano simbolo i personaggi. Il teatro è vivo, chiarissimo nella sua portata politica, nel mappare un’epoca, nel rinviare alla nostra. E infatti, dopo una sessione di letture selezionate, recitate a turno dai partecipanti, si apre il dibattito. Cosa c’è di più greco del dibattito? Penso ad esempio a Le origini del pensiero greco, dove Jean-Pierre Vernant fa combaciare la nascita della filosofia con la discussione pubblica, quando la politica «prende forma di agon: un certame oratorio, un duello di argomenti che ha per teatro l’agora, piazza pubblica, luogo di riunione. […] Tra la politica e il logos, c’è così un rapporto stretto, un legame reciproco. L’arte politica consiste essenzialmente nel maneggiare il linguaggio». Con il suo linguaggio, il teatro è anche rappresentazione delle grandi questioni morali e politiche. Non a caso, il focus proposto nel workshop è il teatro di parola.
Stacco, pausa pranzo, ci spostiamo al bar. Conosco i partecipanti, mi accolgono, mi permettono di entrare nell’intimità che hanno creato nei giorni di lavoro a contatto costante e strettissimo. Cerco di rispettarla e a un tempo fremo dalla voglia di conoscere tutti i laboratoristi, tempestarli di domande, divorare i loro resoconti. Rientriamo.
La “regia” passa a Monica Capuani, traduttrice, giornalista e dramaturg da anni maestra della Biennale College Teatro. Ricorda Morosi che si conobbero a un convegno, durante il quale Capuani fece un intervento sul teatro di Seneca. Di lì, mantengono i contatti e Capuani invita Morosi a co-condurre questo laboratorio.
Se le mattine sono dedicate al mondo antico, al pomeriggio Capuani dipana la matassa di rinvii che lo legano al presente, nello specifico attraverso le riscritture dei classici. Inizia da una contestualizzazione della drammaturgia anglofona lungo le ultime quattro generazioni, per dare prospettiva e profondità a quella contemporanea. Sono autori che conosce, si è “sporcata le mani”, se ne è fatta portavoce. I testi che propone nel corso delle letture pomeridiane sono sue traduzioni, la maggior parte non ancora edite. Girl on an altar di Marina Carr (“Bambina su un altare”, nella traduzione di Capuani) è una riscrittura della saga degli Atridi che mescola elementi vari, presi da momenti diversi del mito narrati in più tragedie. Racconta il dolore di Clitennestra, la sua rielaborazione del lutto, la difficoltà nel perdonare Agamennone dopo la scelta di sacrificare la figlia Ifigenia in nome della guerra e delle sue aspirazioni. I ragazzi cercano di dare un taglio attoriale alla lettura e ci riescono, anche senza forzare troppo la mano: abbiamo nel naso il fumo dei sacrifici, negli occhi l’orrore del sangue, lo splendore delle sale del palazzo reale di Argo. Tutti i partecipanti fanno la loro parte. La passione, la voglia di discutere, la disponibilità a lasciarsi bagnare dalla bellezza delle parole e dei concetti generano una singolare forza d’amore che fa vibrare la stanza. Monica Capuani sostiene che abbia a che vedere con la tradizione irlandese dello storytelling e la sua qualità pittorica, a cui la Carr attinge. E forse, lascia intendere, c’è di più...