Verde è il colore dell’ambivalenza. Nello spettro delle sue tonalità nasconde la speranza ma anche la paura. È la manifestazione semiotica di molteplici significati, che in un gioco di rimandi e assonanze può ricondurci ai tanti riflessi di una pietra preziosa. Non è curioso che lo smeraldo possegga un intenso policromismo? Dalla trasparenza di un verde marino si passa all’opacità di un verde scuro, quasi nero.
Nel fantastico mondo de Il mago di Oz, verde è la lontana città di Smeraldo, l’apparente meta conclusiva del viaggio, il luogo che promette di realizzare i desideri. Ma verde è anche la malvagia Strega dell’Ovest, l’ostacolo che insidia il cammino e la sfida da superare per conquistare ciò a cui si aspira.
Fra le diverse gradazioni di verde – fra le cieche speranze che ci nutrono e le drammatiche paure che ci avvertono – si delinea un percorso. È il nostro viaggio, il mio e di tutti quelli che sono alla forsennata ricerca di qualcosa, mossi da una disperata volontà di raggiungerla.
Ma cosa vuole dire poi arrivare alla città di Smeraldo? Corrisponde a scoprire che non c’è mago o incantesimo in grado di donare ciò che non siamo stati capaci, nel nostro intimo, di costruire. Significa incappare in una grande illusione. Tuttavia, non vi era nulla di finto nel nostro viaggio. È un percorso interiore e ogni sua acquisizione è sempre e comunque l’esito di una verità maturata individualmente.
Speranza o illusione, desiderio ma anche paura, verità e cammino. Si potrebbe star parlando anche di Teatro.
Pasquale Renella
“Ci possiamo sedere? Riuscite a scalare di un posto?” “Dai, smettetela di disturbare e venite a mettervi qui dietro”.
“Cos’è questo odore di citronella?” “Shhhh”.
“Ho ingurgitato lo spritz di corsa per entrare e adesso eccoci qui, in ritardo”.
“Di cosa ti occupi?”. “Potremmo seguire il loro workshop insieme!” “Sì, dobbiamo capire quando andare”. “Chissà chi scriverà il pezzo, domani…”.
Sembriamo moscerini agitati intorno ai resti della frutta sul tavolo in veranda. Prendiamo posto ma non riusciamo a stare seduti, sobbalziamo al primo stimolo. Vittime del nostro tempo, dipendenti dalla dopamina, cerchiamo un appiglio, una distrazione, qualunque cosa per non stare a fissare il nero del sipario che tarda ad aprirsi. Sarà parte dello spettacolo?
Il sipario inizia a scorrere. Appare un rettangolo di fiori e candele, all’incirca di cinque metri per otto, che occupa il centro del palco scarsamente illuminato. Eccolo, l’odore di citronella! Sulla parete di fronte, quella opposta al pubblico, campeggia uno schermo. È il vero protagonista, l’unica reale fonte di narrazione. Tutta la prima parte si gioca tra la staticità della scena e il succedersi di frasi proiettate.
Il display interagisce con il pubblico, dà degli ordini: gli si rivolge alla seconda persona singolare e gioca sulla sovrapposizione di circostanze e testo, ci fa credere di essere un determinato spettatore di uno spettacolo simile ma diverso rispetto a quello a cui stiamo assistendo. È un’immersione che sa di ipnosi, entra nel cervello.
Simpatizzo con la voce narrante, mi sembra un’ottima approssimazione dei miei processi mentali, è credibile.
Intanto, dinanzi a noi, sempre e solo fiori e candele, lo stesso “altare commemorativo”. Di cosa, non si sa, eppure in qualche modo accende un vago senso del sacro. Lo schermo proclama: «Invece di muoversi tra attori, danzatori, video e luci, il tuo cervello si è fermato, lasciandoti come unico personaggio dello spettacolo». Il testo è “cosciente”, gioca con la sensazione di tirarla per le lunghe, intontisce alimentando il nostro stesso martellante monologo interno.
La prima parte si conclude con una poesia di Pablo Gisbert, il drammaturgo dell’opera, e ci inabissa nella nostra impotenza solipsistica. Il mondo è un’immagine morta, la cultura un insieme di valori e ideologie su cui non riusciamo a incidere e a cui cerchiamo di partecipare seguendo il principio di piacere, senza riuscire a sentirci veramente vivi, coinvolti, complici. «E con tutto – ciò dichiara il testo – il mio cervello ha concepito una messinscena per la vita», «Ho perso il mio tempo». Il sipario si chiude, la pièce nella pièce è finita. Lo schermo però continua a guidarci, ci dice chi siamo: lo spettatore che esce dal teatro, sosta brevemente in strada, si prepara a rientrare.
Per tutto il resto dello spettacolo, affrontiamo le varie tappe del ritorno a casa nella desolazione urbana. Quando la tenda nera torna ad aprirsi, sul palco si susseguono solo scene statiche dalle gestualità rallentate, senza un evidente filo narrativo. Appaiono figure anonime, per la maggior parte sono normali abitanti della periferia, immigrati musulmani, senzatetto, nottambuli sregolati, adolescenti festaioli, e così via. Sono accomunate da un dettaglio: un tessuto simile alla calzamaglia nasconde la pelle lasciata scoperta dai vestiti, maschera i volti e le rende “manichini” indistinguibili. Intorno, non c’è nessuna indicazione paesaggistica, solo pareti lisce e grigie. È tutto estremamente remoto, appiattito, straniante. Contemporaneamente, la voce dello schermo continua a sovrapporsi al nostro monologo interiore e prosegue, indipendente. Solo a tratti accenna a un’aderenza con le immagini che affollano la scena. Il ritmo lento e snervante conduce a un climax blando ma oppressivo. Quando il testo “ci porta a casa", gli ambienti finora rappresentati lasciano spazio alle riprese di un film. La visione di un porno in cui recita Linda Lovelace, attrice ormai defunta, è occasione per una riflessione schiacciante: «Siamo una specie necrofila». Ci nutriamo di immagini, frammenti ed emozioni del passato.
Poi, l’ultima istruzione: “decidi” di sdraiarti sul letto, di ascoltare il battito del cuore, pensi alle cellule. Compongono il sangue, le cellule, e si riproducono attraverso milioni di anni e di corpi. Vivono in ogni insignificante comparsa che abita la nostra visione periferica. Nel mentre, gli attori alzano il lenzuolo che copre il lettino al centro delle riprese. Per la prima volta, vediamo un corpo nudo, senza tessuti a occultarlo, deformarlo. È un corpo morto.
Disteso sul letto, ti calano le palpebre, «Per fortuna che il sonno separa i giorni». Il sipario è un sospiro di sollievo.
Il buio in sala cala attraversando ogni gradazione, con una dissolvenza lentissima, come una colonna srotolata, vertebra dopo vertebra, in un movimento fluido e sospeso in cui si percepisce quasi il beat della pulsazione cardiaca. In un secondo, poi, il palcoscenico è totalmente illuminato, come con un fulmine che si paralizza e, dopo un lieve sospiro, viene assorbito dall’oscurità. Milk, lo spettacolo del Khashabi Ensemble portato in scena al Teatro delle Tese, si inserisce in un tempo elastico e smollato simile al suo incipit: si allunga e torna alla dimensione di partenza che sempre più si lacera.
Su un palco rialzato da materassini grigio scuro, cinque donne cullano ognuna un manichino in modo sempre più concitato. Quei corpi vivi, anatomicamente differenziati, molleggiano sui propri piedi, in uno shake crescente che fa scricchiolare, staccare e cadere le membra delle fisicità di plastica abbracciate e che, scosse, mostrano passivamente espressioni facciali simili a pesci “asfissiati”. Spostate, impilate, sistemate, le corporature dei fantocci non hanno fattualità biologica e, infatti, nelle mani, braccia, labbra delle donne che li cercano non rimane che l’aria dall’inizio alla fine. È lampante la somiglianza con Le sacre du printemps di Pina Bausch nei movimenti, nei temperamenti e perfino nella palette dei costumi delle performer. Qui, però, il sacrificio è già stato compiuto o, meglio, subìto, e adesso viene pianto con lacrime lattiginose. L’apparizione di una donna, in gravidanza, irrompe in quella temporalità ciclicamente cieca e, come fosse un’evocazione allegorica, distribuisce dal cesto portato a spalla piante, probabilmente di papiro. Non sono solo quelle a rappresentare la fecondità: dopo averle sistemate sui corpi di plastica e averle annaffiate con il latte secreto dalle mammelle di tutte, le attrici consumano un picnic di melograni guardando proprio a quel cimitero en plein air, posizionate in cima alla montagna di materassini.
Sul palcoscenico, chiuso con una quarta parete di nylon, inizia a piovere. Si sente quasi l’odore del latte, mentre le donne fuggono portando con loro i corpi dei manichini liberati dalle piante. La cerimonia della prosperità perde di importanza, sembra emergere più una nostalgia incurabile che una volontà di procreazione. E proprio a quel punto assistiamo alla nascita di un uomo partorito già adulto, muscoloso, tatuato che alternerà sue ri-nascite e morti con la madre in un susseguirsi di incontri mancati, impossibili. Tra silenzi e colonne sonore a tratti melodrammatiche, il suolo è di nuovo in tormento, le “zolle” si muovono e sembrano poggiare le fondamenta (incerte e inzuppate) su una terra immersa nel latte. Tra i tentativi del performer di ristabilire la trama terrena e la vita, le cinque donne tornano in scena ognuna con un microfono e, con lo sguardo fisso sul pubblico, respirano, lasciando percepire l’impossibilità (viscerale) di trovare il fiato e la forza di parlare. Sedute e poi abbandonate mostrano ancora il collasso di abbracci, baci, carezze destinate al nulla gelido (l’incomunicabilità di Café Muller?) sotto una pioggia di latte sprecato.
Bashar Markus porta in scena, probabilmente, quella tragedia che è il perdere la casa, il figlio, la madre (meno il padre), e quindi se stessi. La sua esigenza vira alla rappresentazione del trauma, nato dal disastro, che cerca di essere rappresentativo di una collettività, attraverso i corpi di queste cinque donne di diversa età. Nella resa finale i corpi risultano soggiogati, per le esigenze di quella idea-struttura registica, in un punto di vista eteronormativo della maternità e risulta, altresì, difficile rintracciare sfumature personali: «i corpi» sembrano «intesi come destinatari passivi di una legge culturale inesorabile», per citare Judith Butler. Lo spettacolo nella sua globalità seduce lo spettatore e vive in una temporalità molto dilatata, seminata da un’iconografia “occidentalizzata” che, nel suo essere qui più familiare, ne spegne l’impatto velocemente come una scintilla. Quello che guarda, però, è uno sguardo privilegiato, abituato alla libertà, alla visione della pelle, dei capelli, del contatto, perfino dell’acqua in scena. Differentemente, invece, dall’occhio spesso inquinato, ostacolato, censurato che può essere quello degli spettatori della zona del Mashrek. Probabilmente allora bisogna fare un passo indietro e considerare Milk come uno spettacolo presentato in Europa ma palestinese, con tutte le contraddizioni che questa appartenenza (repressa) comporta. Apprezzando, quindi, con accoglienza umana l’operazione di Murkus che, appena trentenne, cerca di indagare uno stato culturale di cui molto poco si parla.
Se le parole, a teatro, danno l’impressione di essere sempre meno capaci di parlare al e del reale, la scommessa di Boris Nikitin sembrerebbe quasi persa in partenza. Ricondurre i suoi lavori alla sola forza del testo, ridurre all’osso qualsiasi altro elemento (fatta eccezione per la componente musicale), rendere impossibile rappresentare altro al di fuori della propria voce: una rarefazione che lo stesso Nikitin non può che descrivere per litoti, rammentando come il suo «non è uno spettacolo teatrale. Non è neanche una performance. Questo non è un concerto. Questa non è la vita vera. E questa non è la realtà».
Che si tratti di Versuch über das Sterben (in scena oggi alla Sala d’Armi) o di Hamlet (che sarà invece presente in Biennale tra il 27 e il 28 giugno), i lavori pensati dall’artista svizzero dovrebbero forse essere intesi come focalizzazioni sul verbo in quanto residuo, per vedere tra tutti i quei “non” cosa effettivamente rimanga. Pensiamo a uno specchio deformante e all’anamorfosi che provoca ai corpi che riflette.
L’effetto potrebbe equivalere alla presenza del testo shakespeariano nel secondo dei due lavori. Julia*n Meding, artista non-binary, agisce a favore di quella “vulner-ability” che caratterizza la poetica di Nikitin (qui regista e autore): disinnescata ogni associazione tra genere e personaggio, venuto meno un processo di automatica immedesimazione, l’interprete fa della drammaturgia una veste logora, dalle cui scuciture emerge la sua identità. La parola scenica diviene così una maschera straniante, che più si dimostra lontana da chi la “pratica”, più silenziosamente descrive l’urgenza dell’artista di parlare della propria pluralità.
Questa “maschera” è la stessa di Nikitin nel suo “tentativo di morire” (Versuch über das Sterben), ovvero in una versione oggettificata del lutto per la scomparsa del padre. Ciò che qui crea distanza è la scelta di leggere la propria perdita, rendendola un altrove spersonalizzato. Ad affiorare è così la condizione insindacabile a cui l’autore e interprete è chiamato: far decadere qualsiasi forma di sensazionalizzazione del dolore, optando per un discorso asettico e interlocutorio sulle assurdità relative all’idea di fine. Il dato autobiografico permette ancor di più all’artista di sostare nel mezzo tra le sfere dell’ironia e della gravità di un racconto che dunque non cerca l’empatia, abbandonando le tipiche forme di attrattiva che la storia vera (alle volte, ruffianamente) genera. Il risultato è un Nikitin che osserva, assieme al pubblico, il proprio lutto da fuori: come se, rendendolo su carta, potesse soffermarsi intimamente sul proprio dolore, senza che ve ne sia una diretta esposizione.
Questa scissione tra testimonianza e dato emotivo ha come effetto collaterale una messa in scena di sé che non sembra più appartenergli, trasformandolo dunque un narratore estraneo alla propria storia.
Come si inserisce un processo che, “svirgolando” la forma di auto-fiction nel raccontarsi, ambisce ad analizzare l’intimità del singolo, in una Biennale che parla sempre più di un’umanità sconvolta e sull’orlo dell’estinzione? Forse, dovremmo più concentrarci su un’altra delle direzioni che sembra pervadere il Festival: fermarsi, avvolgersi in noi stessi, lasciare da parte qualsiasi forma di medialità per avere uno sguardo disincantato sul reale, che viene restituito senza essere svelato ai quattro venti.
Che poi, quella di Nikitin è comunque una fine del mondo: che ci coinvolge tutti, bene o male, che ammicca all’idea di rivoluzionare anche l’espressione del lutto e dell’identità attraverso i non detti. Godiamoci allora i silenzi, ma tra le righe: per vedere le parole non tanto come un danno – «they can only do harm», cantavano i Depeche Mode –, ma come qualcosa di più infestante. Forse, quando il verbo diventa solo un tentativo vano di esprimere qualcosa, ad arrivarci è il tepore impressionista di una temperie emotiva incomunicabile. Ed è proprio questa ineffabilità che si dimostra capace di legarci tacitamente all’interlocutore.